Pubblichiamo qui l’intervento di Piero Fassino al Comitato centrale del Partito comunista italiano (Roma, 20-24 novembre 1989), nell’ambito del dibattito suscitato dalla proposta del segretario Achille Occhetto di dar vita a un nuovo partito della sinistra.
Ritengo che la proposta avanzata da Occhetto abbia il merito di restituire al Pci quella funzione nazionale e internazionale su cui si è fondato negli anni il suo prestigio. Siamo di fronte a un bivio: o attestarsi su una posizione di “nobile resistenza” sperando che tempi migliori maturino; oppure avviare una operazione certo rischiosa, ma assolutamente ineludibile per ritrovare quella funzione storica e quella centralità politica che ci ha permesso di diventare quello che siamo. Il nostro ultimo congresso ha alimentato una nuova fiducia e alimentato nuovi consensi. Tuttavia, quanto è avvenuto in questi ultimi mesi ci ha fornito anche un’altra indicazione: quel processo di rinnovamento ha bisogno di accelerare la sua marcia, di trovare forme e modi nuovi di espressione, di radicarsi socialmente per non correre il rischio di un nuovo arresto e di nuovi arretramenti. Per un verso ce lo richiedono i mutamenti grandi della scena internazionale: certo non abbiamo proprio noi da vergognarci di ciò che succede ad Est; oggi più che mai si conferma che i giudizi e le parole nostri che dieci anni fa potevano apparire temerari o ingenerosi erano invece profetici. E, tuttavia, anche rivendicando una insostituibile nostra funzione, non possiamo chiuderci in un orizzonte contemplativo o nella supponenza dell’heri dicebamus.
I grandi mutamenti avvenuti sulla scena internazionale ci sollecitano ad ulteriori innovazioni e a dare nuovo sviluppo ad una linea di autonomia e internazionalismo. Questo è il senso dell’individuazione nell’Internazionale socialista di una sede utile e proficua per andare avanti nella nostra ricerca culturale e politica. Senza ritenere che l’adesione all’Internazionale socialista sia una risposta tranquillizzante a tutti gli interrogativi, occorre chiederci perché ad essa si rivolgono i partiti e i movimenti riformatori dell’Est. Ciò avviene perché in quei paesi si sta realizzando una rivoluzione democratica che tende alla ricomposizione delle libertà democratiche con l’uguaglianza sociale, due termini a lungo scissi nella esperienza concreta del comunismo. Questa ricomposizione è anche il fondamento stesso della nostra autonomia. E, peraltro, anche i partiti socialisti sono oggi chiamati a misurarsi come noi con il manifestarsi delle contraddizioni delle società moderne (nuove forme di alienazione produttiva e sociale, questione ecologica, l’emergere di nuove soggettività e conflitti acuti su problemi spesso inediti). Né può essere dimenticato cosa rappresenta l’Internazionale socialista fuori d’Europa: la elaborazione di Brandt e Palme sui rapporti Nord-Sud del mondo, il ruolo progressista che essa svolge in America latina (e per fare un esempio di questi giorni, in Salvador), penso all’attenzione con cui l’Internazionale socialista guarda all’America centrale. La proposta di dar vita a una nuova formazione politica non deriva solo dai mutati scenari internazionali, ma anche dalla consapevolezza che è urgente compiere atti che sblocchino il sistema politico e ripropongano la praticabilità di un cambio di direzione al paese.
Al congresso Occhetto ha detto che il nome del partito – un nome onorato, di cui non abbiamo certo ragione di vergognarci – non è tabù immodificabile in presenza di fatti nuovi. Ebbene, i “fatti nuovi” non sono tali solo se vengono prodotti da altri: questo sarebbe un atteggiamento subalterno e passivo, una dismissione della nostra azione propulsiva. Al contrario, la nostra proposta intende produrre proprio un fatto nuovo, dinamizzare i rapporti politici, rompere la cappa soffocante che l’assetto di potere Dc-Psi sta calando sul paese. Una proposta che non vuole fare sconti o concessioni a nessuno. Tanto meno a Craxi. La nostra iniziativa anzi tende proprio a stringere il Psi, a mettere a nudo le sue ambiguità e proprio in quanto non si omologa, né accetta improponibili annessioni subalterne, ripropone in avanti, su un terreno di pari dignità, intorno a una proposta politica, l’unità della sinistra. Una proposta che tende all’unità della sinistra che noi – pur considerando ineludibile il rapporto con il Psi – non concepiamo esaurita solo nel rapporto Pci-Psi. Riproporre oggi un processo aggregativo nuovo delle molte diverse forme della sinistra sommersa per una prospettiva di impegno etico e politico, significa riconoscere le molte culture di sinistra, assumerle e fonderle con la nostra esperienza in una originale nuova forma-partito capace di rappresentare bisogni, domande e aspettative della società di oggi.
Il senso della proposta che abbiamo avanzato è quello di proseguire e accelerare un processo di rifondazione della sinistra. Il XVIII congresso e il nuovo Pci sono stati il primo tempo. Il consenso e i risultati acquisiti ci dicono che si può e si deve andare avanti. Per questo oggi proponiamo un “secondo tempo”: una fase costituente che, lungo un percorso di aggregazione di nuove forze, consenta alla sinistra di darsi uno strumento politico capace di accelerare le condizioni dell’alternativa. Chiunque di noi vede i rischi che l’operazione proposta comporta. Per questo, se si vuole che la discussione sia non solo vera, ma utile, è necessario che ci si intenda su una premessa di metodo: questo dibattito richiede rispetto e reciproco riconoscimento. E’ stata giustamente avvertita l’inutilità di dividerci fra innovatori e conservatori; altrettanto falso è rappresentare il nostro dibattito come se vi fosse chi tutela il patrimonio storico e politico del Pci e chi lo vuole svendere al primo rigattiere di passaggio. Non è così. Nessuno intende abiurare nulla, né svendere alcunché, od omologarsi ad alcuno. La politica non può però fermarsi ad una pur nobile testimonianza; bisogna avere ogni giorno il coraggio di andare oltre, di innovare, di navigare in mare aperto. Nel Pci ho imparato che alla tranquillità della conservazione occorre sempre preferire l’inquietudine dell’innovazione.
Piero Fassino