L’ uomo che visse tre volte è nato a Londra, il 21 Luglio di cinquantotto anni fa: all’anagrafe viene iscritto con il nome di Steven Demetre Georgiou, terzo figlio di padre greco-cipriota e madre svedese. A quell’epoca, i genitori gestiscono un ristorante nel quartiere di Soho dove, quando è libero dalle lezioni alla scuola cattolica, lavora anche Steven. Dopo la separazione dei genitori, segue la madre in Svezia e s’interessa alle tecniche di disegno. Di ritorno a Londra, tuttavia, intraprende la carriera di cantautore. E’ il 1966 e anche se la vicenda umana di Mr Georgiou è agli inizi, i segni ci sono già tutti: ambiente multiculturale, non particolarmente benestante; educazione religiosa (cattolica, anche se il padre è ortodosso); interessi artistici. A tutto questo si aggiunge il successo internazionale che gli arride poco oltre i vent’anni, quando pubblica “Tea For The Tillerman” con il nome d’arte che ha assunto dagli esordi: Cat Stevens.
La seconda vita dell’ancora ragazzo è una “success story” molto anni Settanta tra legittime ambizioni artistiche e stilistiche, ottimi riscontri commerciali e un crescente senso d’insoddisfazione. Già nel 1969, dopo un grave attacco di tubercolosi, aveva attraversato un periodo di crisi. Sotto la pressione dello star system e di un ruolo che stride fastidiosamente con la sua vena raccolta e intimista, affronta la svolta più ardua dopo avere di nuovo rischiato la vita, questa volta in mare.
Il 23 Dicembre del 1977, in controtendenza con un ambiente musicale travolto dalla sregolata generazione del “No Future”, annuncia la conversione all’islam e la sua terza vita nelle vesti di Yusuf Islam.
In mezzo a tutto ciò che segue – una disciplina esistenziale radicalmente differente; il matrimonio e i cinque figli; la pratica religiosa; l’impegno nella beneficenza; la fondazione di scuole islamiche; il discusso e mai chiarito sostegno alla fatwa contro Salman Rushdie; sino alla condanna dell’attentato alle Torri gemelle e ai premi ricevuti per l’impegno umanitario a favore della pace – molti sono gli episodi importanti e carichi di significati, ma non quanto un’altra scelta compiuta, conseguente alla conversione, in quel lontano settantasette.
Con “An Other Cup”, Yusuf è tornato, nello scorso novembre, a comporre, suonare, cantare e incidere come aveva fatto sino al suo album precedente, “Back To Earth”, datato 1978. Nel mezzo, ventotto anni di volontario silenzio, seguendo l’interpretazione più restrittiva delle leggi coraniche riguardo alla musica e all’uso degli strumenti. Anni di soffocamento, di messa al bando autoimposta del proprio fluviale talento. L’innalzamento di un muro del silenzio tra sé e la sua arte; tra sé e sé.
Ma con il tempo il muro inizia a sbriciolarsi: nel 1985 compone un brano per il Live Aid, anche se la sua esibizione viene annullata per il protrarsi di quella di Elton John (un incidente che sembra una metafora); dalla seconda metà degli anni Novanta incide album di divulgazione religiosa, seppure accompagnato solo da percussioni; nel 2004 appare al concerto in onore di Nelson Mandela; nel 2005 compone “Indian Ocean” per raccogliere fondi a favore degli orfani di Banda Aceh, una delle regioni più devastate dallo tsunami. E quando uno dei figli intraprende a sua volta la carriera musicale, in casa riappare, di colpo, una chitarra.
La vita di Steven/Cat/Yusuf continua, così, tornando al punto di partenza: indipendentemente dalla riuscita di questo ritorno, è bello riascoltarlo. E poter pensare che – senza abiure – l’artista in precedenza conosciuto come Cat Stevens ha ritrovato la voce. Perché la musica mal si adatta a imposizioni e costrizioni. E perché non c’è sacrificio più grande, in realtà, che rimanere se stessi.