Ci sono casi in cui l’opinione pubblica italiana appare irredimibile. La disputa attorno al corpo sofferente di Piergiorgio Welby sembra uno di tali casi. La sofferenza, oscena di suo, lo diventa ancora di più quando è trasformata in argomento di dibattito, occasione di assunzione di posizione politica, grimaldello argomentativo, caso etico da bar, occasione per parlare d’altro. Il tutto, poi, è naturalmente condito dai soliti vizi di ogni pubblica discussione: pressappochismo, imprecisione, cinismo, superficialità. Ce ne sarebbe abbastanza per sottrarsi all’invito a scriverne, per non voler aggiungere un’altra voce al dibattito. Cercherò allora, almeno, di dire solo due cose, e due cose semplici, forse scontate e di mero buon senso, che però mi sembrano stranamente rimosse, perlopiù, dalla chiacchiera. Forse, nonostante le intenzioni e le precauzioni, con questo contributo la chiacchiera aumenterà e con essa la confusione. Forse questo è il motivo per cui, in giro, c’è tanta chiacchiera: chi vi contribuisce non sa di farlo e crede di essere l’unico ad avere cose sensate (e urgenti, e indispensabili) da dire. In ogni caso, due cose.
La prima: la tutela della vita dal suo sorgere al suo tramontare, anche e soprattutto in un’etica cristiana, non è compatibile con l’accanimento terapeutico. Nella volontà di tenere in scacco la morte attraverso la tecnologia è presente una duplice valenza: la lotta responsabile di noi uomini contro i limiti che la natura pare imporci e, al contempo, l’illusione prometeica che quei limiti possano essere rimossi e non semplicemente spostati sempre un po’ più in là. La prima valenza è pienamente cristiana (e più precisamente cattolica, secondo il principio antifideistico della contribuzione dell’uomo alla creazione tramite le sue facoltà naturali), la seconda, ovviamente, no. L’accanimento terapeutico rientra come caso di scuola nella seconda valenza. Non ha forse addirittura qualcosa di sacro il desiderio di smettere di soffrire di quanti reputino insopportabile il dolore fisico e psicologico causato da un indefinito mantenimento in vita tramite l’apporto delle macchine, in una sorta di resa all’ineluttabilità della morte umana, all’onnipotenza del tutto (che per un cristiano ha le sembianze amabili dell’abbraccio di Dio)? Certo, in prospettiva cristiana il dolore è salvifico, come spesso teologi e pastori ricordano nel loro magistero. Laddove il dolore è presente e già dato e inevitabile, la Chiesa da sempre insegna a vederne la natura non solo contingente, bensì eterna e colma di significato. Si tratta, nonostante le irrisioni superficiali di qualche mangiapreti da strapazzo, di uno dei punti più alti, più nobili e più rivoluzionari della dottrina cristiana. È, per inciso, una delle ragioni più profonde della persuasività bimillenaria del cristianesimo: spiega il dolore e, così facendo, in qualche modo anche lo piega. Lo rende più umano. Però: il dolore che salva è, per il cristiano, il dolore di Cristo. Cristo soffre perché l’uomo non soffra. Cristo muore perché l’uomo viva. La sofferenza non necessaria degli uomini è scandalo per il cristiano così come per il laico e, proprio in quanto scandalosa, può essere semmai l’eroica e privilegiata condizione di pochi in cui si esercita la santità estrema nell’incorporazione mistica a Cristo, non certo l’ordinaria richiesta di una dottrina morale per tutti. Non lo è, non lo è mai stata, non deve e non può esserlo se il cristianesimo vuole continuare a mantenere il prezioso legame con la razionalità e la ragionevolezza.
La seconda: ho difficoltà a rispondere alla domanda circa che cosa pensi dell’eutanasia. La mia difficoltà non deriva affatto da confusione, smarrimento o poca chiarezza circa quel che io pensi sulla vita e sulla morte, bensì dal fatto che non mi è molto chiaro che cosa si voglia intendere con il termine “eutanasia”, che cosa esso significhi per come viene evocato da più parti (con orrore o auspicandone l’avvento) nel dibattito pubblico in corso in questi giorni in Italia. Quel che sarebbe ridicolo se non fosse tragico è che si parla, si parla, si parla, ma nessuno pare sapere di che cosa. Ci si chiede (sui giornali, in televisione, sui blog, nelle aule scolastiche, tra amici, un po’ dovunque) se si sia favorevoli o contrari all’eutanasia, senza che nessuno abbia mai la pazienza e la carità di chiarire di che cosa si stia parlando. Sarebbe bello, per una volta, che di fronte alla radicalità di ciò che in tali vicende è in gioco si riuscisse a ragionare e non solo a litigare asserragliati nei baluardi delle contrapposte metafisiche. Sarebbe bello che chi detiene il potere di legiferare non inseguisse le telecamere per mostrarsi come elegante portatore di una maschera che si presume possa essere facilmente riconosciuta dal popolo elettore, ma piuttosto scrivesse, proponesse, avanzasse opinioni su un qualche progetto definito che non si sottragga alla pietosa fatica di catalogare, di classificare, di includere, di escludere, di paragonare, di attribuire responsabilità. Certo, la preoccupazione di molti che l’adozione in Italia di leggi che regolino l’eutanasia possa significare l’introduzione surrettizia di una “cultura della morte”, cioè di un orizzonte culturale tendenzialmente nichilista che finisca per smantellare, corrodendole dall’interno, alcune fondamentali categorie sulle quali si è basato nei secoli fino ad oggi la nostra convivenza civile, è una preoccupazione legittima e che non dovrebbe essere sottovalutata, almeno nella banale prospettiva della ricerca di maggioranze che quelle leggi possano politicamente sostenere. È una preoccupazione che in buona parte condivido. È il motivo per il quale nel momento in cui si discutesse su una proposta di legge mi ritroverei ad essere favorevole, ad esempio, alla massima tutela della vita di chi non può decidere per sé (un bambino, un anziano o un malato incosciente, un folle) contro ogni evocazione del principio “pietoso” che imporrebbe di alleviare la sofferenza altrui. Tuttavia, anzi proprio in virtù di ciò, mi sembra sia possibile cercare e trovare con gli strumenti della discussione politica un buon accordo che regoli il nostro vivere civile associato: facendo leva sul concetto di accanimento terapeutico, ad esempio; introducendo il testamento biologico; incoraggiando ciascuno a esprimersi, nel pieno delle proprie capacità e della propria volontà libera, circa i limiti – sempre rivedibili – di quel che ritenga essere, nei casi prevedibili in cui il dilemma potrebbe porsi, una condizione di terapia accettabile per la propria dignità di essere umano. Mi sembra che ciò basterebbe, ad esempio, per consentire a Piergiorgio Welby di riavere indietro, non pietosamente bensì umanamente, la propria libertà e la naturalità della sua esistenza biologica (e della fine della stessa, che ne è in qualche modo parte), agitata come bandiera proprio da chi – paradossalmente – vorrebbe negargli il diritto di rassegnarsi serenamente all’ineluttabilità della sofferenza e della morte, che della condizione umana sono – in particolare per un credente – l’inesorabile orizzonte terreno e, forse, un passaggio ad altro.