Le sorti del governo Prodi e quelle del Partito democratico sono inseparabili, perché entrambi sono espressione di una stessa linea politica, che è poi la linea Maginot contro la regressione eticista del nostro dibattito pubblico. Dalla missione in Libano alla manovra finanziaria, dall’indulto alla legislazione in materia di pacs, la linea politica del governo e del nascente Partito democratico può essere facilmente illustrata in questa chiave, a partire dagli argomenti dei loro oppositori, a destra come a sinistra, su ciascuna di tali delicate questioni.
Il 2006 si chiude con inquietanti segnali di una possibile guerra civile palestinese, con la corsa al nucleare dell’Iran, con l’assedio di Hezbollah al governo di Fuad Siniora, mentre l’escalation in Iraq appare incontrollabile. Questo il bilancio dell’idealismo neoconservatore. I frutti di quella politica estera eticamente ispirata potrebbero essere una triplice guerra civile mediorientale: in Iraq, in Palestina e in Libano. Una guerra dalle conseguenze incalcolabili, per il Medio Oriente e per tutti noi.
La linea del governo, del presidente del Consiglio Romano Prodi e del ministro degli Esteri Massimo D’Alema – cioè la linea del Partito democratico – ha coinciso con quello che si è chiamato, anche negli Stati Uniti, il ritorno al realismo. In Italia, concretamente, lo sbocco di tale nuova impostazione è stato il sostegno al governo Siniora e alla missione in Libano. Da più parti, in Italia, tale approccio ha suscitato le critiche consuete. Persino il sostegno a Siniora, capo di un governo in cui, allora, era presente Hezbollah, è stato considerato come un inaccettabile cedimento alle forze del male, una diserzione dal fronte della guerra al terrorismo, l’ennesimo rivoltante compromesso concluso in nome della Realpolitik. L’antica accusa di ricercare vigliaccamente un appeasement con i nemici dell’Occidente, seguendo una strategia non solo empia, ma fallimentare (come il precedente di Monaco insegnerebbe). Il fatto che i risultati della linea opposta siano quelli che abbiamo elencato, evidentemente, non ha indotto molti ripensamenti in simili critici. Quegli stessi critici che oggi, dinanzi all’assedio di Beirut, scoprono improvvisamente l’importanza di sostenere il governo Siniora.
Il 2006 si chiude con il riemergere della Russia di Vladimir Putin sulla scena internazionale. I segni di un’involuzione autoritaria sono evidenti da anni, ma negli ultimi mesi c’è stato un salto di qualità: dall’omicidio di Anna Politkovskaja al caso Litvinenko, al modo sempre più spregiudicato in cui Putin gioca la carta del ricatto energetico. Il suo crescente peso internazionale è legato alla crescita del valore delle materie prime (cui non è certo estraneo il caos mediorientale provocato dalla politica estera eticamente ispirata degli Stati Uniti). Proprio in questi giorni il principale settimanale della comunità finanziaria internazionale, l’Economist, mette Putin in copertina e ammonisce i fautori della Realpolitik occidentale a non scherzare con la Russia. L’editoriale del prestigioso settimanale parte dall’ultima, inquietante notizia dal fronte della nuova autocrazia asiatica: la decisione della Shell e della Mitsubishi di rivendere a Gazprom, senza troppe storie, il controllo degli impianti di Sakhalin per lo sfruttamento dei ricchi giacimenti locali. Dopo la sorte toccata Kodorkosky e agli altri oligarchi che hanno tentato di resistere al disegno accentratore di Putin, evidentemente, si è preferito fare buon viso a cattivo gioco. Ennesimo segnale, certamente, dell’involuzione autoritaria in corso. Ma questa è soltanto una parte della verità. Perché a Sakhalin, negli anni Novanta di Boris Eltsin, quelle stesse compagnie avevano potuto imporre contratti capestro a un paese in ginocchio, accomodandosi insieme a tanti altri illustri commensali al grande banchetto della Russia post-sovietica. Il rinascente e minaccioso nazionalismo russo, il grande ritorno dello stato e del controllo pubblico sull’economia, con tutte le sue degenerazioni, ne è la conseguenza. Forse è persino il male minore. L’alternativa poteva essere uno stato fallito, e peggio, una mezza dozzina di stati falliti, permeabili alle infiltrazioni islamiste, ricchi di centrali atomiche e testate nucleari. Forse bisognerebbe consigliare maggiore prudenza nei giudizi a quella grande stampa internazionale che negli anni Novanta inneggiava alla primavera democratica eltsiniana. Seguita dalla stampa italiana, come al solito, compresa l’Unità di Walter Veltroni, che distribuiva gratuitamente “I diari del presidente” firmati Boris Eltsin, sulle giornate del fallito golpe dei generali (e di quello, riuscito, degli uomini d’affari).
Il 2006 si chiude con il fallimento dell’aggregazione tra Autostrade e Abertis. Dopo il caso Telecom e mentre su Alitalia sembrano intuirsi i contorni di un analogo protagonismo governativo (con il ministro Bianchi nel ruolo di Di Pietro), l’azione del governo italiano suscita non poche critiche, per violazione delle più elementari regole del mercato (in merito c’è un ricorso a Bruxelles che potrebbe costarci molto caro). Le critiche sono a nostro avviso più che fondate, anche se il paragone con la Russia di Putin è ovviamente eccessivo. Ma anche l’attuale guerra dell’esecutivo contro i rentier, contro gli oligarchi della nostra era Eltsin, affonda le radici in una storia che andrebbe raccontata dall’inizio. E quando la difesa dei principi del liberismo economico si accorda con la tutela degli interessi economici dei rentier e degli oligarchi, non ci sentiamo di unirci alle grida scandalizzate di tanti. Ma anche qui, il Partito democratico, come forza principale del governo e come partito del presidente del Consiglio, è l’unica soluzione razionale dinanzi all’opacità di un gioco di alleanze e di competizione su più tavoli che si riflette inevitabilmente sulla trasparenza e sulla coerenza dei rapporti tra politica ed economia.
Il 2006 si chiude con l’avvio della fase congressuale per Ds e Margherita. Eppure su eutanasia, coppie di fatto, limiti della ricerca scientifica si assiste ogni giorno agli opposti riflussi identitari, inevitabilmente incoraggiati dalle dinamiche congressuali. Si tratta della stessa regressione eticista che ammorba il dibattito in politica estera come sulla giustizia (e pazienza se le carceri scoppiano, o se scoppierà la terza guerra mondiale). E’ la linea di chi, in nome di nobili principi, si disinteressa delle conseguenze concrete delle decisioni che invoca, rivendicando l’irresponsabilità della politica. Ma se oggi abbiamo una pessima legge come la legge 40, la responsabilità è di coloro che a sinistra, incalzati dalla solita campagnuccia contro la viltà e l’irredimibile vocazione compromissoria degli ex-comunisti, trascinarono i Ds e gli altri partiti della sinistra al referendum. Fino a quel momento, l’accordo su una revisione della legge era larghissimo e arrivava fino a diversi esponenti del centrodestra. All’indomani del voto la si sarebbe cambiata in un attimo. Più in generale, prima del referendum, era opinione diffusa che l’influenza della Chiesa fosse ormai tramontata. Sui giornali non si parlava d’altro che della crisi delle vocazioni, delle parrocchie deserte, dell’incolmabile abisso tra gerarchie e senso comune. Dal giorno dopo non si parla che della riscoperta della fede e della potenza della Chiesa. Senza quel referendum oggi avremmo una buona legge sulla fecondazione. E tanti bravi elettori del centrosinistra non sarebbero sottoposti alla quotidiana tortura intellettuale inflitta loro dalle continue interviste e prese di posizione della senatrice Paola Binetti, che non sarebbe mai stata candidata. E ora, nei Ds, proprio coloro che a quella disfatta hanno trascinato la sinistra e l’Italia intera, insistono. Il Partito democratico sarebbe la resa all’integralismo cattolico. Bisogna gridare più forte i nostri valori – gridano – e nel frastuono generale è sempre più difficile capire di cosa parlino. Mentre coloro che hanno prodotto l’affermazione di Ahmadinejad e di Hamas in Medio Oriente gridano che non bisogna trattare con i terroristi, mentre coloro che hanno prodotto l’involuzione autoritaria della Russia gridano che non bisogna trattare con Putin, coloro che hanno prodotto l’intangibilità politica della legge 40 gridano che non bisogna trattare con la Margherita.
Quando era ancora fresco il ricordo di Luigi Cadorna e delle numerose quanto inutili perdite inflitte al nostro esercito dalle sue velleitarie manovre e dalle sue spericolate sortite, Antonio Gramsci coniò la definizione di cadornismo politico. Si riferiva al disprezzo per ogni valutazione dei reali rapporti di forza, per ogni realistica considerazione di uomini e mezzi. Oggi forse bisognerebbe parlare di cadornismo etico, visti i frutti di una simile impostazione non solo sul piano politico, ma innanzi tutto sul piano etico e culturale.