L’ esordio di Andrea Bargnani nell’Nba, la lega professionistica americana di basket, assomiglia molto a quanto racconta quella vecchia canzone di De Gregori, fatte le debite aggiustature. Là, nella canzone, si parla di calcio e di un ragazzino, Nino, alle prime esperienze agonistiche che fanno intravedere, grazie allo sguardo lungimirante di un allenatore che non si ferma ai particolari, la stoffa del buon giocatore. Qui, nella realtà del gotha della pallacanestro mondiale, abbiamo a che fare con un giovanotto di due metri e tredici, classe 1985, già milionario, campione d’Italia in carica con la Benetton Treviso, primo europeo di sempre (e terzo non statunitense) ad essere scelto al primo posto nel draft 2006, il sistema con cui la Nba organizza il diritto delle trenta squadre affiliate di proporre nuovi contratti a giocatori dei college, dei campionati internazionali o delle leghe minori.
La chiamata di Bargnani come “prima scelta” da parte della franchigia di Toronto è stata sorprendente fino a un certo punto: la comparsa al primo posto nel draft del nome del “Mago” (questo il soprannome di Bargnani, a riprova del fatto che nonostante la giovane età non si tratta di un pivello sprovveduto) era stata ampiamente pronosticata da esperti e giornalisti. Va anche detto, a stemperare un po’ il carattere eccezionale del pur notevole evento, che il basket della più importante lega professionistica del mondo è, da qualche anno, sempre meno esclusivamente statunitense. Ogni franchigia ha ormai nel proprio organico diversi giocatori nati fuori dagli Stati Uniti, cosa impensabile fino a un decennio fa. Spesso gli “stranieri” sono addirittura le star delle squadre in cui giocano: è il caso del canadese Nash a Phoenix (eletto miglior giocatore della lega nelle ultime due stagioni), del cinese Yao Ming a Houston, del francese Parker e dell’argentino Ginobili a San Antonio, dello spagnolo Gasol nella squadra del Minnesota, del tedesco Nowitzki a Dallas, che ha rischiato addirittura di vincere il titolo l’anno scorso perdendo poi rocambolescamente in finale. In generale, il predominio statunitense sul gioco del basket è ormai messo in discussione, come dimostrano anche i risultati non brillanti della nazionale Usa ai recenti mondiali, chiusi al terzo posto nonostante una squadra che schierava alcuni giovani e già celebrati assi dell’Nba.
Ma torniamo a Nino/Bargnani. Nonostante l’aura del predestinato, i primi passi nel basket che conta sono stati incerti. Con “la maglia numero sette” sulle spalle, il ragazzo veniva impiegato poco in campo dal suo allenatore, Sam Mitchell. In media poco più di una decina di minuti a partita. Giusto il tempo di capire dove fosse finito e di organizzare qualche giocata, ma nulla più. Oltretutto, Nino/Bargnani gioca in un ruolo, ala grande, nel quale gli avversari sono, spesso, marcantoni dai muscoli ipertrofici e dalla fisicità straripante. Nino/Bargnani non è certo piccolino, ma in proporzione ha un po’ ancora “le spalle strette”. Soprattutto, le sue prime uscite davano l’impressione di un giocatore non ancora del tutto pronto ai ritmi e alla durezza degli scontri corpo a corpo in area. Per dirla come la direbbero (e come l’hanno in effetti detta) i commentatori americani, il ragazzo appariva un po’ soft, molle, indeciso, stralunato, complice anche una faccia cui la natura ha conferito un’espressione un po’ stordita. È evidente che una squadra Nba non se ne fa niente di un giocatore che, per quanto talento possieda, scende in campo con “il cuore pieno di paura”. Non erano ancora le campane a morto per la carriera americana di Nino/Bargnani, ma quasi.
Poi sono cambiate un paio di cose. Innanzitutto il fuoriclasse della squadra di Toronto, Chris Bosh, che gioca nello stesso ruolo di Nino/Bargnani, ha cominciato ad avere qualche problemino di salute. Il Nostro, di conseguenza, ha cominciato ad essere impiegato dall’allenatore per spezzoni di partita sempre più lunghi e decisivi, anche dietro le pressioni dei proprietari della squadra, che sull’italiano hanno fatto un importante investimento. E il bello è che Nino/Bargnani ha risposto alla grande: il pallone tra le sue mani ha cominciato a “sembrare stregato” nel senso positivo del termine, cioè nel senso del “Mago”. I minuti a partita hanno cominciato a diventare una ventina, in alcuni casi anche trenta (cioè, in breve, una quantità da titolare). La media dei punti segnati s’è impennata. Nino/Bargnani è diventato uno dei principali terminali offensivi della squadra, nonostante la partenza dalla panchina: adesso solo un paio di compagni di squadra segnano di più e hanno rendimenti statistici migliori in relazione ai minuti giocati. Dato per disperso nelle prime settimane, il “Mago” è prepotentemente ricomparso ai primi posti nelle classifiche dei migliori rookies (le “matricole”) dell’intera lega. Finché una sera, settimana scorsa, con Bosh bloccato in infermeria, ha piazzato la sua prima, vera magata assoluta: gran parte della partita in campo, primo marcatore della squadra con 23 punti, percentuali di tiro favolose, sei rimbalzi, due stoppate (alla faccia del soft), avversari diretti marcati alla grande, ma soprattutto un finale di partita decisivo con quattro tiri da tre punti infilati in sequenza determinanti per consentire al suo team di vincere in trasferta sul campo di una delle squadre più forti della lega, gli Orlando Magic. L’indomani sui giornali sportivi americani e sul sito web dell’Nba non si parlava d’altro. Certo, nella partita successiva Nino/Bargnani è stato lasciato un po’ a riposo e il suo apporto alla squadra è stato decisamente meno rilevante: 19 minuti giocati, solo 6 punti, percentuali sporche. A questo punto, però, pare chiaro che si tratti di una strategia dell’allenatore e della franchigia: “il ragazzo si farà”, è certo, anzi ha già fatto vedere quel che può valere in prospettiva, cioè moltissimo. Non è il caso di bruciarlo, di stressarlo, di mettergli sulle spalle ancora un po’ strette chissà quali pressioni e responsabilità. Che giochi, che provi a fare le sue magate, che prenda le misure dell’esplosivo basket statunitense. Con calma. Concedendosi anche il lusso di sbagliare qualche tiro o, in qualcuna delle oltre ottanta partite stagionali, qualche passaggio a vuoto. Tanto è chiaro che, vista la stoffa, “non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”.