Anni or sono, ricordando come lo statuto dei lavoratori era stato approvato dopo la morte di Giacomo Brodolini, suo vero padre, Gino Giugni ha scritto che l’adozione definitiva di questa grande riforma si dovette al fatto che Donat Cattin, della sinistra cattolica, aveva portato a termine quanto il “socialista ministro” (e, ci teneva a specificare, non “ministro socialista”) aveva lasciato incompiuto per la sua prematura morte. Dice Giugni: “Non possiamo allora non considerare come anche questa convergenza nella politica sociale tra un esponente socialista e un esponente della sinistra democristiana abbia in sostanza il significato di una saldatura fra schieramenti divisi da storici steccati ma che non presentano, nell’azione politica in questa fase storica, apprezzabili divergenze di fondo”. Le parole di Gino Giugni fanno sicuramente riflettere. Dobbiamo chiederci infatti perché mai, alla luce di questo esempio storico, i cristiano-sociali e i socialisti (intesi soprattutto come democratici di sinistra, ma anche come socialisti in senso lato) che nel 1970 collaborarono così bene alla stesura di quella legislazione sociale, dovrebbero rimanere divisi oggi. Perché mai, se la storia ci dice che gli storici steccati di allora sono pressoché scomparsi, e se la mancanza di “apprezzabili divergenze di fondo” è certamente rispetto ad allora ancora più evidente? Perché il riformismo sociale e “laburista” di cui questo paese è capace, e da sempre, dovrebbe rimanere diviso oggi che non esistono più i partiti di allora? Non basta: perché questa divisione se oggi a quei partiti ne sono subentrati altri ben più deboli ed esangui, che non stanno in piedi l’uno senza l’altro e stanno in una coalizione che non sta in piedi se l’uno non collabora con l’altro? Certo, sono argomenti ascoltati spesso, che dalla vicenda Brodolini-Donat Cattin non ricevono che ulteriore vigore. In realtà le parole di Giugni ci inducono a pensare, da socialdemocratici e socialisti, molto più in profondità.
Ci fa pensare anzitutto a quale sia stata la vicenda storica di crescita delle socialdemocrazie più grandi e celebrate di questo continente. Vicenda che da noi si andrà forse a compiere solo grazie al Partito democratico. Tutte le socialdemocrazie, inevitabilmente, si sono tramutate da “partito operaio” in un più ampio “partito popolare”, formando così quei partiti nazionali che ancora oggi costituiscono (e domani costituiranno) la più omogenea famiglia politica europea. Ciò significa che hanno assemblato lentamente ceti popolari diversi proponendo quella riforma graduale e democratica del capitalismo di cui lo statuto dei lavoratori è solo un esempio (che non deve diventare un feticcio). La socialdemocrazia ha insegnato e imparato, nei decenni, che riformare la società di mercato era “della classe”, ma non “di classe”. E così anche chi non era socialista per cultura o per aspirazione ha visto che quella riforma non solo non generava l’appiattimento classista delle persone, ma anzi giovava alla persona, di qualsiasi classe. Certamente di qualsiasi classe popolare e media. E’ così che il socialismo ha assemblato quel “personalismo”, quella voglia cioè di giovare all’uomo per intero, e non solo come salariato o come consumatore, che è dentro il cristianesimo riformista di tutte le latitudini. Ed è così che ne ha ricevuto giovamento, spargendo nella società moderna e laica la semenza di quel messaggio, e trovandovi un alleato anziché un avversario o un concorrente. Ai tempi di Brodolini e Donat Cattin la situazione non era molto diversa da oggi, perché i due riformismi erano al governo insieme, ma appartenevano a due partiti diversi, e quindi erano poi declinati in modo concorrente. Con quali danni non è necessario nemmeno dire. Anche oggi.
Ora, i socialisti e socialdemocratici italiani, quelli che si riconoscono nella storia variegata del socialismo nel nostro paese, non dovrebbero lasciarsi sconvolgere dal fatto che stavolta non sarà Delors, cristiano-sociale, a iscriversi al partito socialista (Francia, Epinay 1971), ma saranno i due riformismi progressisti a confluire in un partito comune. Complicazione tutta italiana che non va affatto sottovalutata, ma nemmeno ingigantita. Intanto perché ai socialisti un partito di massa partecipato occorre, oggi e sempre, e non è un caso che i popolari di Marini siano gli unici nel centrosinistra capaci e desiderosi di costruirlo. Mentre è certo che senza un’innovazione coraggiosa la forma-partito partecipata nel nostro paese si avvia a diventare una miserabile cosa. Anche perché un partito di massa innesta l’organizzazione negli interessi e nelle competenze che parlano ai leader (che il partito ha del resto imparato a selezionare democraticamente, come è impossibile fare abbandonandosi periodicamente alle concioni di Micromega), e si rende così autonomo da alleati e mass media, e quindi ben più utile agli uni e agli altri. Ma soprattutto al paese. Questo è un partito nazionale.
I lettori di Left Wing apprezzeranno che in quanto detto ci sono i presupposti di una base storico-culturale che è vitale ristabilire per costruire il Partito democratico. E a cui il sottoscritto scandinavista, comunque, tiene molto. E’ vero: verso il nuovo partito confluiscono alcuni che interpretano questa novità come il trionfo del post-moderno. Ma a ben guardare vi sono presenti molto più corpose ed evidenti le ragioni, le forze storiche, le culture che hanno del mutamento la percezione equilibrata che dovrebbe essere congeniale a chi sa di storia. Non sta né in cielo né in terra, lo ripeto ultimamente in ogni occasione, che questa sia l’epoca in cui il rapporto continuità-discontinuità sarà stravolto, chissà perché per la prima volta, a favore dell’imperio totale della discontinuità. La “catarsi”, le tabulæ rasæ, le rotture definitive, non esistono. Comunque, e certamente, non fanno parte della cultura di alcun socialdemocratico, e a ben vedere nemmeno di un comunista gramsciano che di Gramsci abbia capito qualcosa. Ed ecco allora che trovare alle culture riformiste fondamentali di questo paese un luogo dove esistere meglio, con più centralità politica e più proficua contaminazione, sarà il modo migliore – per dirla con una metafora da musica barocca – cambiare il “concertino” senza rinunciare al “basso continuo”.
Già perché un socialista crede, dovrebbe credere, nel “basso continuo” della storia moderna, e anche ipermoderna. Dovrebbe credere, poniamo, nel fatto che intorno a come e quando riformare il capitalismo sarà sempre possibile costruire una funzione di riforma della società. Per le classi e per le persone che le compongono. E dovrebbe credere che questo “basso continuo” rimarrà tale, perché il turbocapitalismo globalizzato di oggi non può, alle persone, porre meno problemi del neocapitalismo declinante dei tempi di Brodolini. Sarà più di ostacolo o più di giovamento che le riforme saranno costruite fra ceti e culture appartenenti ad uno stesso partito anziché distillate da mediazioni fra i medesimi ceti e culture dislocati in due partiti diversi?
Dovrebbe credere, ogni socialista, che unirsi a chi proviene da un altro conservatorio non cambierà la sostanza del concerto grosso. E allora occorre mettersi nella migliore condizione per interpretarlo al meglio, questo basso continuo, così da capire poi come impostare la melodia (“il concertino”) che più gli si confà, cioè la politica riformista che meglio si confà al paese e all’Europa. E, questo è il punto, oggi occorre una confluenza di tutti coloro i quali sono interessati a mettere in comune gli strumenti. Ecco perché le parole di Gino Giugni parlano al presente.