Martedì gli americani andranno alle urne in condizioni del tutto particolari, con un pazzo terrorista alla finestra e gli avvocati alla porta. Voteranno avendo ancora nelle orecchie il caucus di Bin Laden e davanti agli occhi le schiere di legali che molto probabilmente saranno chiamati a eleggere il nuovo presidente in loro vece. Il parallelo con l’Unione europea che in questi giorni firma il suo trattato costituzionale, avvia il suo allargamento e si prepara a includere entro i suoi confini l’intero continente fa giustizia di molti luoghi comuni sulla giovinezza e la vitalità della politica sulle due sponde dell’Atlantico. Mentre gli europei si apprestano a chiudere l’infinita e difficilissima transizione dei paesi ex comunisti, a riportare entro le proprie istituzioni democratiche i martoriati Balcani e preparano negoziati persino con la Turchia, nel piccolo villaggio americano – proprio come nel bellissimo film di Shyamalan – in pochi sembrano avere ancora il coraggio di oltrepassare il bosco che li circonda. Gli ultimi spot repubblicani, con l’immagine dei lupi che si aggirano nelle foreste a simboleggiare la minaccia terrorista, ricordano terribilmente le “creature innominabili” di The Village. La vecchia America va al voto divisa in due, sfidata apertamente dai beffardi ammonimenti di Bin Laden e nella consapevolezza che la ferita del 2000 – un presidente eletto dai giudici – rischia di trasformarsi in una cancrena capace di amputare l’intero corpo elettorale del suo principale diritto, quello all’ultima parola.
Le prime analisi dicono che il video di Bin Laden non avrà effetti rilevanti sugli orientamenti di voto. Nel suo messaggio, rivolgendosi direttamente agli elettori americani, il capo di Al Qaeda ha citato una scena di Fahrenheit 9/11, il celebre film anti-Bush di Michael Moore. Dopo l’11 marzo di Madrid, si tratta del caso più clamoroso di intervento pre-elettorale mai tentato dai fondamentalisti. L’utilizzo esplicito della propaganda dell’opposizione interna a un paese democratico nasconde il veleno più pericoloso. Se studi successivi dovessero dimostrare che un simile intervento abbia avvantaggiato il presidente in carica, sarebbe facile rigettare in faccia ai molti contestatori della vittoria di Zapatero le loro stesse parole. Tuttavia, il grado di penetrazione nel dibattito interno alle democrazie occidentali e il suo uso strumentale da parte dei terroristi pone un problema scottante. La reazione da paese in guerra, con la condanna di ogni dissenso come disfattismo e di ogni dissenziente come quinta colonna del nemico, la censura o l’autocensura di ogni opposizione rischia seriamente di rinchiudere l’America e sempre più ogni democrazia occidentale nel suo recinto. Trasformando così un intero paese in un’enorme Guantanamo morale.
Il video di Bin Laden a tre anni dall’11 settembre e la sua apparizione alla vigilia delle elezioni, nel tentativo di riprodurre le stesse dinamiche dell’11 marzo di Madrid, mostra infine tutta la debolezza della risposta americana agli attacchi del 2001. Niente di nuovo sul fronte occidentale. Dinanzi al comizio dello sceicco saudita, la vecchia America sta alla finestra, impantanata in Iraq e con poche migliaia di soldati a salvaguardare la transizione democratica dell’Afghanistan. In balia di ogni influenza esterna, celebra un voto di cui le mille incognite tecniche e procedurali – fino alle inquietanti polemiche sulle registrazioni negate a migliaia di elettori – rendono sempre più incerta la legittimazione. Una condizione ideale per lo sceicco, che non a caso ha smesso la divisa del soldato e indossato per l’occasione l’abito dell’uomo politico. Non resta che augurarsi che il prossimo presidente degli Stati Uniti sappia fare altrettanto.