Chissà cosa deve aver pensato Tony Blair, leggendo le dichiarazioni del segretario alla Difesa degli Stati Uniti a proposito del possibile ritiro americano dall’Iraq anche in mancanza di una reale pacificazione del paese. Chissà cosa deve aver pensato, a pochi giorni dall’annuale congresso laburista, sentendo Rumsfeld dire che l’Iraq non è mai stato un paese pacifico e perfetto, ed è improbabile che lo sia in futuro. Chissà cosa avrà pensato il più fedele alleato dell’Amministrazione americana, vedendo cadere l’ultima giustificazione rimasta alla guerra e smontata dalle fondamenta l’intera costruzione ideologica che l’aveva sorretta. Caduta la giustificazione delle responsabilità irachene nell’11 settembre e svelata la clamorosa patacca dei dossier sulle armi di sterminio in mano a Saddam, cade ora anche l’ultimo argomento addotto dai sostenitori dell’intervento: fermare il tiranno prima che commettesse altri crimini e rendere l’Iraq un paese libero e democratico. Deporre un dittatore sanguinario per lasciare il paese nella guerra civile, magari in attesa di un altro e più feroce despota, difficilmente può essere definita un’opera meritoria. Cade, infine, l’ultima illusione sul realismo della predicazione pseudo-rivoluzionaria dei neoconservatori. La loro analisi era relativamente semplice: nel Medio Oriente l’equilibrio garantito dai regimi laici, dopo l’11 settembre, ha dimostrato di non tenere più. Non tiene più quel ciclo repressione/inclusione dell’islamismo radicale garantito dai governi “moderati” nel tentativo di conservare il potere, con la loro retorica antioccidentale e l’ampia libertà di movimento lasciata ai gruppi neotradizionalisti, alternata a violente repressioni non appena quegli stessi movimenti cerchino di capitalizzare la loro influenza sul terreno politico. La crisi di questo peculiare modello di contenimento, certamente assai imperfetto e precario, per i neoconservatori doveva essere affrontata di petto, scalzando quei regimi corrotti ed esportando la democrazia liberale nel mondo arabo. La ritirata annunciata da Donald Rumsfeld segna la fine di questa illusione. Il congresso del partito laburista che si è aperto domenica vede Tony Blair ribadire punto per punto le sue posizioni sull’Iraq, sulla necessità di intervenire e sul dovere di non abbandonare il paese. I delegati hanno ottenuto di votare sul ritiro delle truppe, nonostante il primo ministro preferisse di gran lunga concentrare l’attenzione sulla poltica interna. Nel frattempo, il ricatto dei sequestratori di Ken Bigley contribuisce a oscurare il proverbiale ottimismo di Blair, che nel suo discorso a Brighton si gioca tutto. Il creatore del New Labour, ispiratore di un modello che sembrava destinato a esercitare un’egemonia duratura su tutto il continente, paga ora il prezzo del suo unico e imperdonabile errore. Ripete che non ha nessuna intenzione di chiedere scusa per avere cacciato Saddam, dice che ritirarsi dall’Iraq sarebbe come arrendersi ai terroristi e sulla sorte dell’ostaggio chiarisce di non volere alimentare false speranze. Si prepara a dare battaglia nel partito e nel paese per il suo terzo mandato, smentisce le voci su sue possibili dimissioni e ribadisce punto per punto la linea seguita fino a oggi dall’inizio della guerra. Ma è rimasto solo. E secondo noi, oggi, anche il suo inossidabile sorriso è in fondo un sorriso triste. Lo stesso che deve essergli salito alle labbra leggendo le dichiarazioni di Donald Rumfeld, certo non estranee all’avvicinarsi delle elezioni presidenziali americane di novembre.