Se dovessimo riassumere in una battuta il dibattito di questi giorni attorno al centrosinistra – giacché quello interno al centrosinistra, purtroppo, è già abbastanza ricco di battute salaci e non necessita di ulteriori facezie – diremmo che gran parte dei commentatori abbaia alla luna, guarda il dito e non chiede nulla. Abbaia alla litigiosità dell’Ulivo, guarda le frizioni all’interno della coalizione e non chiede altro che parole rassicuranti. Imputa ai partiti l’eccessiva frammentazione ma non si schiera sull’unica soluzione in campo per ridurla, accusa i dirigenti di condurre lotte personali a scapito del bene comune ma non ritiene di doverne indagare le ragioni di fondo (anche perché in tal caso scoprirebbe che esse sono sistemiche e non personali), biasima Romano Prodi per non avere ancora chiarito la sua posizione su ognuna di quelle divergenze, criticandone la scarsa iniziativa politica, ma tace, mostra di ignorare e non chiede nulla su quella che è la scelta determinante che per suo impulso è stata compiuta e che egli in prima persona sta ora portando avanti: la costruzione di una nuova forza riformista. L’instabilità del quadro politico non è dovuta certo alla particolare perversione dei suoi attori, ma alla sua attuale configurazione. Se davvero si vuole che il centrosinistra parli con una sola voce, abbia una sola posizione su ogni singolo tema e una sola prospettiva strategica, fatto salvo naturalmente il diritto al dissenso delle minoranze, occorre evidentemente che il suo gruppo dirigente, quello che dovrebbe trainare la coalizione, non si sparpagli in tutte le direzioni come cavalli impazziti. Non restano dunque che due opzioni: risolvere la lotta per l’egemonia tra Ds e Margherita in una guerriglia continua che non si concluderà fino a che l’uno o l’altro dei contendenti non sia stato sconfitto e relegato in posizione subordinata; oppure fondere i due partiti maggiori, insieme allo Sdi e ad altri soggetti della vivace e complessa geografia politica del centrosinistra, per dare vita a un soggetto unitario, che esprima una linea, un leader e un gruppo dirigente. Una forza che oscilli tra il trenta e il trentacinque per cento, in grado pertanto di guidare la coalizione e di tenerla unita senza farsi schiacciare sulla difensiva dai partiti minori o da minoranze ribelli. Dunque la nave che può portare il centrosinistra fuori dalle secche è già in acqua. Essa ha un nome: federazione riformista; due padri: Romano Prodi e Massimo D’Alema; una prima tempesta da affrontare e su cui misurare la propria robustezza: le prossime elezioni regionali. Se si vuole la stabilità del sistema, la chiarezza del dibattito pubblico e una più netta attribuzione di ruoli e responsabilità, non c’è che da sostenerla.