Le notizie incoraggianti sull’andamento del contagio da Covid-19 stanno gradualmente rimodulando il dibattito pubblico italiano. Ormai ci si comincia a domandare quando, e in che modo, avrà senso riprendere la produzione anche in settori non strettamente essenziali. Potremmo dire che per i decisori politici italiani si sta profilando un classico problema di massimizzazione multi-obiettivo. Se è vero che le misure di lockdown intraprese dal governo stanno avendo effetti positivi sulla diffusione del contagio, la riduzione senza precedenti dell’attività produttiva pone enormi problemi di carattere economico e sociale oltre che di sostenibilità nel medio periodo di tali misure. Virologi e epidemiologi concordano sul fatto che dovremo convivere con il virus fino a che non si troverà un vaccino e che, dati i tempi tecnici per le sperimentazioni e per la successiva commercializzazione, ciò non potrà avvenire prima di un anno o due. Inoltre, gli scienziati sottolineano che qualunque sia il grado di ammorbidimento del lockdown, esso comporterà una serie di precauzioni necessarie al fine di non riattivare la spirale dei contagi. Di contro, gli economisti ci dicono che, per le economie avanzate, ad ogni mese di lockdown corrisponde in media circa il due per cento di caduta del Pil annuo. Sebbene le economie dei paesi BRICS avranno cadute del Pil più limitate rispetto ai paesi del “blocco occidentale”, dall’analisi intra-settoriale emerge con tutta evidenza come il sistema produttivo sarà colpito in maniera pesante e trasversale.
Lo scenario che si prospetta è quindi veramente fosco. Non a caso giornalisti e politici tendono a parlare di stato di guerra. Il termine non è del tutto improprio ma la guerra che stiamo combattendo è assai diversa da quelle osservate nel passato. Parafrasando il titolo di un celebre saggio di Ernst Jünger, potremmo dire che ci troviamo nell’immobilismo totale dato che, a differenza delle guerre combattute con le armi, la produzione non è affatto mobilitata ma è tenuta ferma fino al punto di crollare. Di analogo con le guerre tradizionali ci sono però due elementi. Il primo è che in tutte le guerre si è assistito alla ridefinizione del peso di ogni paese nell’assetto geopolitico internazionale. Il secondo è che le guerre le ha sempre perse chi non è stato in grado di produrre.
Questa pandemia ci ha insegnato qualcosa su come riattivare la produzione? Quello che abbiamo notato in queste prime settimane di diffusione del Covid-19 è che, nel momento del bisogno, ogni comunità nazionale ha (legittimamente) cercato di preservare prima di tutto i propri concittadini. I media nazionali hanno puntato l’indice contro i comportamenti di Francia e Germania ma l’Italia non è stata da meno, bloccando le esportazioni di ventilatori polmonari e attuando una “nazionalizzazione” di fatto del settore. Questo fenomeno ha colpito per il momento soltanto i beni legati all’emergenza sanitaria, ma se il blocco produttivo che sta colpendo il mondo occidentale dovesse – anche in modo parziale – prolungarsi ancora a lungo, rischia di estendersi anche ad altri settori. La seconda cosa che è emersa in modo chiaro è che le delocalizzazioni e la creazione di catene del valore internazionali, che sono il massimo dell’efficienza in tempi di pace, mostrano tutti i loro limiti in tempo di guerra. L’idea di poterci fare pienamente affidamento nei prossimi anni, con tutte le precauzioni sanitarie che saranno necessarie, è quindi effimera. Al tempo stesso, le riconversioni industriali necessarie per far fronte all’inevitabile rallentamento nel commercio internazionale non sono affatto facili. L’esempio di queste prime settimane, con le difficoltà incontrate anche su beni relativamente poco complessi come le mascherine, è lì a dimostrarlo.
Ma questa rilocalizzazione produttiva ha senso o va combattuta? La storia ci insegna che in tempi di pace questo processo è molto inefficiente. Un caso di scuola è il tentativo attuato dalla ex presidente argentina Cristina Kirchner di produrre nel suo paese il Blackberry utilizzando manodopera e competenze nazionali. Ci riuscì, ma quando due anni dopo il “Blackberry argentino” arrivò sui mercati costava molto più della versione prodotta all’estero e, soprattutto, si trovò a concorrere con telefoni touch screen. Fu un fallimento totale. Tuttavia, in tempi di guerra, davanti ai fenomeni di ri-nazionalizzazione e di scarsità di beni sui mercati, quello che appare inefficiente potrebbe diventare una necessità.
Il processo di rilocalizzazione produttiva è giustificato anche per garantire adeguati standard vitali per i cittadini. La politica dei sussidi e delle integrazioni, comprensibilmente attuata dal governo in queste prime settimane per dare una parvenza di normalità ai consumi di chi deve restare a casa, rischia di diventare rapidamente insostenibile. Come giustamente osservavano i generali tedeschi durante la prima guerra mondiale, «il denaro senza produzione non conta niente»: il livello di benessere di un paese (inteso non solo come consumi individuali ma anche come consumi collettivi) dipende in ultima istanza dal livello di produzione che riesce a conseguire, data la sua forza lavoro. A lungo andare, senza produzione verrebbero a mancare non soltanto i sussidi e le integrazioni, ma anche gli ospedali dove curarsi. La storia economica mondiale ci insegna che senza produzione, o con una sua drastica riduzione, ci sarebbe una caduta verticale del potere di acquisto dei cittadini, con una conseguente svalutazione della moneta nazionale e, quindi, un’ulteriore difficoltà a reperire sui mercati internazionali le merci che non vengono prodotte internamente. Certo, a garantire all’Italia ancora un po’ di autonomia ci sono l’Europa e la sua tanto vituperata moneta unica, che ha mantenuto il suo valore pur in presenza di un’enorme caduta nella produzione nazionale. Ma questa situazione non può durare ancora a lungo, anche perché – pur con minore intensità – il rallentamento della produzione sta caratterizzando tutto il continente.
Per questo una delle prime scelte da effettuare nelle prossime settimane dovrebbe essere proprio quella di decidere cosa si debba necessariamente produrre all’interno, e se la conseguente pianificazione industriale debba essere attuata a livello nazionale o europeo. Questa seconda ipotesi sarebbe di gran lunga preferibile. Data l’eterogeneità e la complementarità dei settori produttivi europei, sarebbe meglio attuare una pianificazione strategica di produzioni essenziali e di meccanismi di distribuzione interni all’Unione, sfruttando le specializzazioni già esistenti e sviluppandone di nuove. Questo minimizzerebbe i costi delle eventuali rilocalizzazioni e eserciterebbe i suoi benefici anche in prospettiva post-crisi. Se l’Europa non sarà in grado di garantire questa sicurezza ai cittadini dell’Unione, le spinte di rilocalizzazione a livello nazionale saranno ancora più forti. E sarà una manna per i partiti populisti.