La concessione del differimento della pena per motivi di salute da parte di alcuni tribunali di sorveglianza a detenuti condannati per associazione mafiosa ha provocato una serie di reazioni, equamente suddivise tra politica, stampa e alcuni magistrati che hanno denunciato non solo il pericolo che boss e interi clan possano essere liberati a causa dell’epidemia, ma addirittura che lo Stato si sia piegato alle logiche ricattatorie delle rivolte carcerarie. Se così fosse ci dovemmo preoccupare: davvero lo Stato sta cedendo a oscure pressioni, strumentalizzando l’emergenza sanitaria per liberare i condannati per reati di mafia? La risposta è no, niente di tutto questo, ma per capire cosa sta succedendo è necessario considerare alcuni aspetti che sono stati trascurati.
Il pericolo di liberazioni indiscriminate è stato smentito dal fatto che in questi stessi giorni sono state respinte istanze analoghe, che riguardavano alcuni boss di cui si prefigurava una liberazione imminente. I provvedimenti che hanno scatenato le reazioni non hanno «liberato i mafiosi», ma hanno disposto per loro un differimento della pena per gravi ragioni di salute, un rimedio straordinario previsto dal codice penale che viene applicato ogni volta che venga accertato uno stato di salute incompatibile con il regime carcerario. La prima cosa da capire rispetto a questi provvedimenti è che ogni caso deve essere valutato nella sua singolarità: non esistono categorie generali, il giudice raccoglie tutte le informazioni necessarie con un’accurata attività istruttoria, sia sullo stato di salute che sulla pericolosità sociale e solo alla fine decide, bilanciando l’interesse del condannato a essere curato adeguatamente e le esigenze di sicurezza della collettività.
Il secondo aspetto che si tende a dimenticare è il contesto in cui la magistratura di sorveglianza sta esercitando la sua funzione. Dall’inizio dell’emergenza in cui la pandemia ci ha precipitati, il governo è stato avvertito urbi et orbi della drammatica situazione delle carceri a causa del loro cronico sovraffollamento. Carceri che sono potenziali focolai del contagio e in cui è difficilissimo garantire la sicurezza di chi vi risiede e di chi vi lavora. Ciononostante, gli interventi del ministro della Giustizia e del governo per fronteggiare i rischi della pandemia sono stati inadeguati, a differenza di altri paesi, in cui si è immediatamente percepita la necessità di ridurre drasticamente il numero dei detenuti. In questa situazione di emergenza, i tribunali di sorveglianza e le direzioni carcerarie si sono ritrovati a svolgere un lavoro difficile e delicatissimo, nel pieno rispetto delle leggi, per riportare a una condizione di sicurezza gli istituti di pena, a causa di una politica inerte. Come è emerso immediatamente, i provvedimenti contestati di cui si è venuti a conoscenza sui giornali hanno riguardato detenuti reclusi da decenni e in gravi condizioni di salute, o detenuti in gravi condizioni di salute a cui mancano pochi mesi alla fine della pena o detenuti afflitti da diverse patologie molto gravi che in questo momento non possono essere curate in regime carcerario, anche – e non solo – a causa dell’emergenza sanitaria in atto.
Sono legittime le preoccupazioni di chi teme la scarcerazione di detenuti pericolosi per l’ordine pubblico, e quei provvedimenti potranno essere impugnati, ma è irresponsabile reagire delegittimando l’attività della magistratura e raccontando un rischio di liberazioni immotivate, come se la giurisdizione si fosse improvvisamente dimenticata di proteggere la sicurezza pubblica. La magistratura di sorveglianza ha tutti gli strumenti per valutare ogni singolo caso contemperando la tutela della sicurezza dei cittadini con il diritto alla vita e alla salute dei detenuti, ma in questa attività complessa dovrebbe essere sostenuta e non attaccata, non solo dal ministro della Giustizia ma da chiunque si richiami al rispetto dello stato di diritto, a meno che non lo faccia in modo strumentale e ondivago a seconda del consenso che si può raccogliere. Le preoccupazioni non possono aggirare il principio per cui il diritto alla salute è un diritto universale, costituzionalmente garantito, e deve essere assicurato anche all’interno degli istituti di pena, soprattutto nel corso di una pandemia.
Per rivendicare la propria autonomia dalla politica e dalla cronaca giudiziaria, il tribunale di sorveglianza di Milano – uno dei tribunali più attivi nel cercare di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario nella regione più colpita dal virus – è stato costretto a chiarire che la scarcerazione di un detenuto condannato per associazione mafiosa non è avvenuta in forza di una legge speciale ma secondo la disciplina ordinaria, applicabile a tutti i detenuti, a tutela del diritto costituzionale alla salute, mentre l’Associazione nazionale magistrati è dovuta intervenire precisando un’ovvietà: compito della giurisdizione è applicare le norme attuative dei principi costituzionali posti a presidio della Repubblica. I provvedimenti dei magistrati possono essere criticati – anche se prima sarebbe buona cosa leggerli – ma non si può fingere di non conoscere la situazione delle carceri e dimenticare di esserne i primi responsabili, non avendo agito per assicurare che nel circuito degli istituti di pena si potesse garantire il diritto alla salute.
Di fronte a tante strumentalizzazioni e deformazioni della realtà, il ministro della Giustizia, invece di difendere l’autonomia della magistratura, si è affrettato a comunicare di avere avviato accertamenti sulle scarcerazioni e si è detto pronto a intervenire, in accordo con il presidente della commissione Antimafia, anche a livello normativo, con proposte che saranno inserite nel prossimo decreto legge. Nonostante la magistratura abbia rivendicato la propria autonomia e la propria indipendenza, abbia ribadito che nessun condannato per mafia è uscito dal carcere in forza di leggi o decreti emergenziali, ma semplicemente applicando le leggi a tutela di un diritto universalmente riconosciuto, anche ai detenuti per i reati più gravi, la reazione del ministro non è stata quella di difendere razionalmente quelle decisioni – o almeno di assumersene la responsabilità – ma di assecondare un attacco ai giudici promettendo interventi immediati. Questo è grave per due ragioni: in primo luogo perché un simile intervento delegittima il lavoro di quei magistrati e concretizza il rischio che si possano condizionare future decisioni in casi analoghi; secondo, perché prefigura una giustizia che non opera per riconoscere i diritti di tutti, ma si fa strumento di ricerca del consenso. Il ministro della Giustizia, per una volta, dice una cosa giusta: la lotta alle mafie è una cosa seria. Parlarne in maniera superficiale è gravissimo.