Ogni comunità ha il suo anno zero, il suo momento fondante, il giorno dell’epifania da cui far ripartire la propria visione del mondo e su cui ridefinire la propria identità rispetto al passato e per il futuro. Accade ai popoli, alle comunità religiose, ai partiti politici e alle singole persone. Quando l’epifania del singolo diverge improvvisamente da quella della propria comunità si ha la scissione, sia essa di una minoranza fortemente ideologizzata o la testimonianza critica di una persona. L’11 settembre è stata una potente e tragica epifania, che ha prodotto negli Stati Uniti una nuova e diffusa consapevolezza di sé e del proprio posto nel mondo, ma anche pericolosi elementi di scissione all’interno dell’Occidente e (più di quanto si creda) degli stessi Stati Uniti. L’11 marzo è stata la volta dell’Europa, ma in realtà la campana aveva già suonato anche per noi, a Istanbul. Gli attentati di novembre alle sinagoghe avrebbero dovuto mettere in guardia i governi, i partiti e gli intellettuali che oggi non possono più sfuggire il confronto con le nuove responsabilità e i nuovi compiti imposti dal nemico a tutte le classi dirigenti europee. Se nei prossimi giorni, come ormai appare quasi scontato, la matrice islamica degli attentati di Madrid verrà definitivamente accertata, la palla passerà alla sinistra europea. In Spagna i socialisti hanno vinto le elezioni con largo margine, in un weekend in cui si susseguivano le notizie di cortei spontanei per chiedere la verità sugli attentati, contestazioni contro i leader popolari che si recavano ai seggi, tensione crescente nei Paesi baschi dove sabato un panettiere è stato assassinato da un poliziotto per avere rifiutato di esporre un segno di lutto. I sospetti sul ministero degli Interni, le recriminazioni sulla scelta di partecipare al conflitto iracheno (a suo tempo condivisa da appena il 7 per cento degli spagnoli) e l’indignazione popolare hanno offerto ai socialisti un’insperata e forse persino immeritata vittoria. La lezione da trarne, per la sinistra spagnola ed europea, è dunque un invito a coltivare lo spirito di scissione cavalcando nonostante tutto l’opposizione alle operazioni di stabilizzazione militare in Iraq, quasi a cercare una tregua separata con il terrorismo islamico?
Uno dei primi editoriali scritti per quelli che erano ancora soltanto numeri di prova, su queste pagine, fu pubblicato qui all’indomani dei nuovi attentati in Turchia. “Dinanzi al rischio che le autobomba comincino a saltare lungo le strade delle grandi capitali europee – scrivevamo – il consenso verso il movimento pacifista potrebbe presto calare drasticamente, lasciando in campo solo due opzioni: la stretta militare di tipo israeliano, una sorta di operazione ‘martello d’acciaio’ su scala mondiale; o la gestione multilaterale, attenta al problema del consenso e delle alleanze con il mondo arabo, di un conflitto che nessuno può però illudersi di risolvere senza ricorrere alla forza. E se necessario, alla guerra. Il modello da seguire è l’Afghanistan, con la lunghissima preparazione politica e diplomatica che precedette l’intervento. Il modello da non seguire è l’Iraq. Il pacifismo, semplicemente non è un modello”. Non crediamo che la vittoria dei socialisti spagnoli sia una smentita di quanto scrivevamo allora. E oggi, alla vigilia della manifestazione contro il terrorismo del 18 marzo e di quella per la pace del 20, ci è sembrato opportuno ripeterlo.