Son tre numeri che la rivista mensile Reset si domanda a cosa serva la filosofia dopo l’11 settembre. Ed è una domanda che si accompagna spesso e volentieri a un’accusa: se non verso la filosofia occidentale tout court, almeno verso quella sua variante che si suole chiamare postmoderna. Non si tratta semplicemente di nichilismo, ma del nichilismo nella sua versione più superficiale, quella che per il suo pavido relativismo giustificherebbe l’idea di un Occidente stanco, privo di fiducia in se stesso, e autocritico sino al masochismo. (Il nichilismo eroico, quello che ha segnato la tragedia del Novecento europeo, per fortuna di tutti dovrebbe essere alle nostre spalle). Del postmodernismo, Franca D’Agostini ha fornito una sintetica presentazione in tre punti: si tratta di un atteggiamento di pensiero preoccupato (a torto o a ragione) della cosa pubblica; di un discorso che intende descrivere la nostra attuale condizione storica; di una filosofia autocritica e autoconfutativa.
Quest’ultima è ovviamente la caratteristica più inquietante (e la più filosofica, si vorrebbe dire: perché interesse per la sfera pubblica e descrizione del presente non fanno ancora una filosofia). Che ce ne facciamo, infatti, di una filosofia che si confuta da sola? Il fatto è che il dilemma dinanzi al quale si trova la teoria filosofica non è dei più semplici. Nessuno (o quasi: ci sono sempre le eccezioni; Severino, per esempio, è una) se la sente più di dare la propria filosofia come inconfutabile, come vera assolutamente. Sembra essere filosoficamente corretto – la correctness si fa largo anche in filosofia – presentare invece una filosofia come confutabile: fallibile, per dirla con Sir Popper. La fallibilità, l’essere esposto di una qualunque teoria, filosofica o scientifica, alla possibilità della confutazione è il politicamente corretto, cioè la regola e il metodo della filosofia contemporanea. Purtroppo, però, come c’è del metodo in certa follia, così c’è un pizzico di follia in questo metodo. Il principio di falsificabilità infatti, lui, non può essere falsificabile. E così appellarsi a questo principio è confutarsi da soli.
Siamo punto e da capo, a quanto pare. Tutti (tranne eccezioni di cui sopra). Ora però, non è che con ciò si voglia tirare Popper nelle secche del postmoderno; solo mostrare che il complicarsi del rapporto con la verità non è frutto delle bizzarrie di qualche spiritoso pensatore in vena di paradossi. E purtroppo da queste complicazioni non se ne esce a piacimento. Oggi però si obietta, ed è la ragione per cui i filosofi postmoderni (specie se francesi) sono sotto accusa, che se questo significa che dobbiamo buttar via i concetti di verità e realtà e oggettività, allora no: non siamo disposti. Il relativismo, la confutabilità di ogni prospettiva impedisce di chiamare le cose col loro nome, di dire pane al pane e vino al vino. Impedisce, per esempio, di chiamare terroristi i terroristi, come se fossero terroristi solo da un certo punto di vista, e da un altro (che sarebbe ex hypothesi parimenti legittimo) no. Dopo l’11 settembre, non possiamo più permetterci simili, irresponsabili pose intellettuali. E già che ci siamo, finiamola con quest’idea che noi leggiamo la realtà secondo certi schemi e dunque: schema diverso, realtà diversa. Chi volesse dare la colpa addirittura a Kant (e non – troppo facile! – al solito Nietzsche) per questa pericolosa china relativistica, può oggi leggere il saggetto di Maurizio Ferraris, Goodbye Kant (Bompiani), da pochi giorni in libreria. Proprio Kant, però, ci aveva insegnato una cosa non da poco, e cioè che oggettività e universalità soggettiva convertuntur. Vale a dire: se una cosa è oggettiva, è la stessa per tutti; e se è la stessa per tutti, allora è oggettiva. Ciò detto (e forse non ci voleva Kant, per dirlo), il punto è però quale direzione prendere. Come dobbiamo leggere, infatti, la reciprocità della proposizione kantiana? È perché è oggettiva, che la cosa è la stessa per tutti, oppure è oggettiva perché è la stessa per tutti? Nel primo caso, bisogna supporre che qualcuno (meglio se autorevole, meglio se un’autorità) informi tutti gli altri che le cose stanno in un certo modo, e gli altri ne converranno. E se non ne vorranno convenire si adegueranno, e se non vorranno adeguarsi ubbidiranno. Nel secondo caso, ahimé, bisognerà che ci si metta d’accordo, e che si intraprenda quel percorso accidentato che molto assomiglia alla democrazia. La quale – sia detto en passant – forse è stata inventata per questo. Ma che bisogno c’è di dire, allora, che si rinuncia alla verità, alla realtà e all’oggettività, quando invece essa rappresenta l’ideale regolativo verso cui la democrazia è in cammino (a differenza delle autocrazie che si riconoscono per l’uso sistematico della menzogna)? Eppoi: chi salta su a dire che gli altri son femminucce, infiacchiti e ormai incapaci di difendere la verità dell’Occidente, come penserà di difenderla questa verità? La vorrà imporre, o ci vorrà convincere?