Il libro di Lucia Annunziata – “1977. L’ultima foto di famiglia” – non è un libro di memorie, però un po’ sì. E non è neanche un saggio, però un po’ di analisi storico-politica dietro quel “lugubre bollettino di scontri” c’è e non è superficiale. C’è l’allora ministro degli Interni Cossiga, chiamato il dottor Stranamore, che ha l’onore di un capitolo intero. C’è tutta la parte dedicata al Pci, l’idea del “cedimento compromissorio col potere” che il Movimento imputa al partito, un partito di funzionari “vecchi, vecchi, vecchi”, con le “loro sezioni buie che rendevano le loro bandiere rosse attaccate alle pareti umide e flosce”. E poi la battaglia molto tiepida per il divorzio, il compromesso storico, l’elezione di Giovanni Leone alla presidenza della Repubblica e di Pietro Ingrao alla Camera, l’austerità. Insomma: “noi odiavamo i comunisti. Che cosa fosse all’origine di quell’odio è comprensibile solo con i nostri occhi di quegli anni”. I nostri occhi di quegli anni. E qui siamo al libro di memorie.
Lucia Annunziata, fin dalle prime pagine, la mette subito sul piano personale. Racconta se stessa, giovane giornalista del Manifesto, che assiste alla cacciata di Luciano Lama dall’Università di Roma in quell’ormai famoso 17 febbraio. Il “parricidio” – dice – la recisione plateale del cordone ombelicale con la tradizione del movimento operaio e coi loro rappresentanti ufficiali: il sindacato e il Partito comunista. Perché forse sì, dopo il ’77 non è stato più possibile stare insieme in un’unica foto di famiglia e quello è stato l’anno in cui il figlio ha pigliato a ceffoni il padre e ha coperto di pernacchie i suoi riti. Diverso dal ’68, quando la contestazione era certamente radicale, ma ripercorreva gli stili e usava le parole della politica. Ora ci sono o lo sberleffo o la P38. Lo spartiacque dell’Annunziata però – per rimanere nel “personale” – non è la fuga di Luciano Lama dall’Università e non sono neanche le parole di Raffaele, il padre (vero), ferroviere comunista, che le telefona il giorno dopo rimproverandola che “di tutti i pezzi scelti per la giornata, il più stupido l’hai scritto tu”. Lo strappo, quello rivoluzionario, Lucia lo compie in redazione. “Sapevo che Rossana (Rossanda ndr) mi avrebbe rimproverato per aver scelto la strada”, cioè per aver deciso di manifestare in piazza contro l’assassinio di Francesco Lorusso. “Mi chiamò, entrai e rimasi in piedi. Lei restò seduta. Era di ghiaccio”. Poi “mi chiese se si era fatto il possibile per evitare che ci fossero scontri. Feci un sorrisetto”. E pare di vederlo quel sorrisetto. Il sorrisetto all’icona, che “era bianchissima già allora”. Eccolo il ringhio contro la madre: “A metà corridoio sentii che mi chiamava. Mi raggiunse, mi prese il viso tra le mani e mi disse, dolcemente: almeno, non bruciate troppe macchine”.
C’è però un’altra lettura possibile di questo libro. A partire dalla domanda: che vuol dire questo ’77 adesso? Perché uno può anche affrontare la faccenda con la preoccupazione del militante del futuro Partito democratico che non capisce come mai – proprio ora – c’è questa foia di rievocare gli indiani metropolitani e l’Autonomia, e fatti che, al di là della ricorrenza, onestamente poco si intrecciano col dibattito politico attuale. Perché non basta scrivere “D’Alema sfoggia già allora la sua voce tagliente” o anche “Mieli non si capiva con chi diavolo fosse schierato” per creare un collegamento col presente. E’ gossip retrodatato, più che memorialistica. E vuol dire poco anche scrivere che “lo scontro tra istituzionali e radicali, insomma tutto l’armamentario delle inconciliabilità che ha reso impossibile la vita del governo di centrosinistra nato nel 1996 e che giace irrisolto ancora oggi sul tavolo di quello formato nel 2006, ha le radici in quell’unico anno, il 1977”. Come “giace irrisolto”? Il cordone non era stato reciso, una volta per tutte?
Questo libro di Lucia Annunziata è stato recensito molto e bene. Su Repubblica è già uscito uno speciale sul ’77 e sul sito c’è tutta una sezione di foto d’epoca direttamente messe a disposizione dai “reduci”; il Corriere della sera ha intervistato Kossiga a tutta pagina ed è bastato che Oreste Scalzone mettesse il naso a Ventimiglia la settimana scorsa per il suo sessantesimo compleanno che quelli di corriere.it lo hanno raggiunto mentre spegneva le candeline. Ed è soltanto gennaio.
Intanto il centrosinistra è al governo e sembra che qualcuno di quelli che “noi odiavamo i comunisti” voglia riattaccarlo, quel moncherino di cordone. Con l’obiettivo di fare il sequel dell’uccisione del padre. Almeno non facessero gli indiani.