Il rapporto tra politica e filosofia si mostra nell’accusa che generalmente viene mossa a entrambe dal cosiddetto senso comune, e dai suoi più o meno ingenui – spesso furbissimi – rappresentanti. Si mostra, intendiamo, nell’opinione diffusa che la politica, così come la filosofia, consista essenzialmente in chiacchiere inconcludenti. Fumisterie intellettualistiche nella migliore delle ipotesi, specchietti per le allodole nella peggiore. Già Benedetto Croce parlava con disprezzo della “credenza che le filosofie siano simili a invenzioni ingegnose e cervellotiche, o a fantasticherie, che, svegliando talvolta entusiasmi e fanatismi e ottenendo credenza, cadono poi le une sulle altre, ciascun filosofo contradicendo e sostituendo l’altro”. Una credenza tanto diffusa quanto infondata, per la semplice ragione che “le verità definite dai filosofi non si abbattono a vicenda, ma si sommano e s’integrano le une con le altre, e dominano il pensiero e la vita, se anche il volgo di questo non si avveda e non si avveda di esserne anch’esso dominato”. Ci pare che scrivendo “politica” in luogo di “filosofia”, cambiando quello che c’è da cambiare (e magari traducendo con un più rispettoso “elettori” lo spregiativo “volgo” crociano), il discorso non perderebbe un grammo di verità.
Un discorso molto simile a quello che abbiamo appena citato si trova non per caso nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, a partire dall’affermazione che “tutti gli uomini sono filosofi”. E dunque: “avendo dimostrato che tutti sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente, perché anche solo nella minima manifestazione di una qualsiasi attività intellettuale, il ‘linguaggio’, è contenuta una determinata concezione del mondo, si passa al secondo momento, al momento della critica e della consapevolezza, cioè alla quistione: è preferibile ‘pensare’ senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale, cioè ‘partecipare’ a una concezione del mondo ‘imposta’ meccanicamente dall’ambiente esterno, e cioè da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamente coinvolto fin dalla sua entrata nel mondo cosciente (…) o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e quindi, in connessione con tale lavorio del proprio cervello, scegliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità?”.
Se tutto questo è vero, nel momento in cui si pone all’ordine del giorno la costruzione di un nuovo partito, forse sarebbe utile fare un ulteriore passo avanti. L’opinione diffusa è che i partiti politici, proprio come i filosofi, siano troppi – sono sempre “troppi”, i partiti, sebbene nessuno si sia mai preoccupato di spiegare in rapporto a cosa – e soprattutto che occorrerebbe “tagliar loro le unghie”. In breve, che riducendone il numero e limitandone il potere, la società e lo stato sarebbero liberati da una cricca corrotta e opprimente, da una casta dedita alla spoliazione delle risorse e alla cura gelosa dei propri privilegi, a discapito del libero cittadino e della cosiddetta società civile.
Secondo noi, invece, tutti gli uomini sono uomini di partito. E coloro che ripetono la cantilena sul predominio dei partiti politici sono gli inconsapevoli iscritti – la carne da cannone – di molti, diversi e ben strutturati “partiti invisibili”, che dettano loro la linea attraverso giornali e televisioni, libri e riviste, in forma diretta o mediata, secondo l’estendersi della loro egemonia al mondo dello spettacolo e della cultura, attraverso infiniti e spesso non meno inconsapevoli portavoce della loro “concezione del mondo” – un processo di diffusione che può avere origine nell’editoriale sul Corriere della sera così come “nell’attività intellettuale del curato o del vecchione patriarcale la cui ‘saggezza’ detta legge – scriveva Gramsci – nella donnetta che ha ereditato la sapienza dalle streghe o nel piccolo intellettuale inacidito nella propria stupidaggine e impotenza a operare”.
La verità è che ogni paese pullula di “partiti invisibili”, ne è attraversato a tutti i livelli e in tutti i sensi, e in forme tanto più sofisticate, ramificate e diffuse secondo il grado di complessità e internazionalizzazione della società. La questione di fondo è dunque, ancora una volta: è preferibile “fare politica” senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale – e cioè ripetendo inconsapevolmente gli slogan di altri partiti – è preferibile partecipare così a una battaglia politica imposta dall’esterno, o è preferibile invece elaborare la propria posizione politica criticamente, nel pieno di un conflitto aperto e trasparente tra diversi partiti – in un conflitto di cui siano chiare le motivazioni e dichiarati gli interessi in campo – per scegliere consapevolmente da che parte schierarsi?
Purtroppo, specialmente in Italia, la chiarezza dello scontro è offuscata dall’estrema debolezza di tutti i partiti democratici, permeabili alle influenze e alle infinite infiltrazioni dei “partiti invisibili”, e di fatto attraversati da duplici, triplici e quadruplici appartenenze. I “partiti invisibili” stendono i loro legami ben al di là dei confini degli schieramenti politici e delle nazioni, rimontano a solidarietà di gruppo, ad affinità più o meno elettive, a molteplici e variabili reti di relazioni che si scompongono e ricompongono all’interno delle istituzioni politiche ed economiche, all’interno dei partiti e delle correnti, in una ragnatela che imprigiona e paralizza il gioco democratico. In Italia più che altrove, per ragioni storiche che sarebbe troppo lungo anche solo elencare, in particolare dal ’92.
Il Partito democratico serve dunque a questo: a liberare il gioco democratico, quanto più possibile, da simili ragnatele. Allargando le basi della democrazia e della partecipazione, favorendo il pluralismo economico e culturale, intervenendo in tal senso sui meccanismi istituzionali e costituendo esso stesso – il Partito democratico come selezionatore e produttore di nuova classe dirigente – una funzione essenziale di circolazione delle élite. Un processo che va al cuore della democrazia, e senza il quale la retorica del consenso e del libero voto degli elettori diviene solo una cortina fumogena, a nascondere l’evidenza del fatto che l’unico diritto rimasto al popolo sovrano sarebbe quello di scegliere da quale fazione farsi comandare, all’interno di un’oligarchia precostituita. Altrove, peraltro. L’esigenza di un vero partito democratico è dunque tanto più evidente nell’Italia di oggi, in cui l’agonia del capitalismo familiare produce l’economia di relazione, che a sua volta dà come sottoprodotti il giornalismo di relazione e l’accademia familiare. Un circuito chiuso e asfittico, dove il dibattito pubblico assomiglia sempre di più a una guerra tra topi chiusi nella stiva del Titanic, per l’ultimo pezzo di formaggio.
La funzione del movimento socialista in ogni paese è sempre stata la lotta contro tutte le aristocrazie, del sangue e del denaro. Stupisce pertanto che l’attuale discussione sull’identità socialista tralasci questo semplice tema. La ragion d’essere del movimento socialista non è in uno zibaldone di parole più o meno roboanti sulla laicità o sulla pace nel mondo, ma in questa funzione specifica. Nella missione, si diceva un tempo, di integrare le masse nello stato. E a questo scopo è essenziale, oggi, una massa critica che i due principali partiti del centrosinistra – Ds e Margherita – non hanno né possono sperare di raggiungere da soli. Come le cronache di tutti i giorni, da almeno un paio di anni a questa parte, si incaricano di dimostrare. Impietosamente.