Massimo D’Alema ha sempre suscitato grandi amori e grandi odii. Non deve dunque sorprendere il fatto che il Presidente Ds possa trovarsi al centro di una polemica. Quella che però suo malgrado lo vede attaccato da una ampia e variegata parte delle comunità ebraiche italiane, in particolare da quella di Roma – e soprattutto da quella parte di destra (ma non solo) che più si riconosce nel Presidente Paserman e nel portavoce Riccardo Pacifici – è più di una polemica. Si tratta infatti soprattutto di una furibonda battaglia politica di interdizione, perché nominalmente certo riguarda il merito delle affermazioni fatte (oggi, ieri e anche l’altro ieri) da D’Alema su Israele, che hanno sempre irritato gli ebrei italiani, ma in realtà ha come vero obiettivo l’attuale governo di centrosinistra e la politica interna italiana. Non a caso tale polemica è divampata da quando Massimo D’Alema è ministro degli Esteri, e soprattutto da quando ha dimostrato di poterlo fare assai bene scegliendo di riallineare la politica estera italiana alla sua tradizionale impostazione mediterranea, quella che era stata abbandonata dal governo Berlusconi per abbracciare la visione da “scontro tra le civiltà” propugnata dai neoconservatori Usa e dall’Amministrazione Bush. Tale riallineamento colpisce infatti interessi politici e visioni delle relazioni internazionali che ora vanno per la maggiore – per semplificare diciamo che toccano coloro che hanno solide referenze e radici nel mondo anglosassone – e che da questa azione di scomposizione e ridiscussione si sentono minacciati. Dunque reagiscono. A corroborare tale reazione torna quindi utile la reazione propriamente generata da D’Alema come figura controversa per l’ebraismo italiano, perché ne trae forza e legittimità. Oggi infatti è molto più facile essere contro l’intervento in Iraq che contro Israele. Tanto che il campo simbolico di Israele viene percorso da varie scorrerie, con l’obiettivo di ridisegnarne i contorni: come ultimo esempio basti la fiction su Ada e Enzo Sereni e le polemiche giornalistiche – iniziate da Miriam Mafai su Repubblica – per l’espunzione del contesto della lotta antifascista dalle vicende della loro vita, che invece a questa furono strettamente intessute, e per la non menzione delle loro posizioni a favore di una Palestina patria di ebrei e arabi; oppure l’ultima frontiera del revisionismo, la lotta al “politicamente corretto” – cioè allo storicamente stabilito, perché l’occidentalismo che bersaglia D’Alema è anche postmoderno e decostruzionista – come il libro di Emanuele Ottolenghi “Autodafè. L’Europa, gli ebrei e l’antisemitismo”, che attacca gli intellettuali ebrei troppo tiepidi verso Israele in quanto cavallo di Troia con il quale entrano nella nostra cultura antisemitismo e antisionismo, perché “l’ebreo che piace di più insomma è quell’ebreo che ebreo non è più”. Una frontiera percorsa per prima da Oriana Fallaci, e ora da numerosi altri, tra i quali la singolare figura di un Magdi Allam, che per fare l’alfiere dell’occidentalismo finisce per incarnare esattamente quella figura di iconoclasta della propria cultura che proprio lui con tanta vigorìa rimprovera a occidentali ed ebrei che dubitano di fronte al “Satana” islamico che avanza. Insomma, è chiaro che siamo di fronte ad uno scontro tanto politico da divenire simbolico.
Già da tempo Berlusconi aveva ben compreso, da fine politico qual è, come in questa fase uno stretto legame con gli Usa non fosse un passivo bensì una delle carte migliori da tenere in mano. A qualsiasi costo. Perfino se questo avesse implicato il sostegno all’impopolare guerra in Iraq, che del resto è bastato sfumare per non farlo incidere nella campagna elettorale del 2006. Non essendo invece il governo Prodi omogeneo all’Amministrazione Usa in carica, il che nell’occidente del dopo 11 settembre è un handicap di tutto rilievo – perché riproduce il “deficit di legittimità” che una volta era il legame dei comunisti con l’Urss – esso è aspettato al varco proprio sulla politica internazionale. Anche per impedire o contrastare la nascita del Partito democratico, che compiutamente risolverebbe il problema del vincolo esterno della sinistra italiana collegandola una volta per tutte alla metà progressista dell’America. Lo sa la destra, e lo sa anche la sinistra radicale, come dimostrano le difficoltà parlamentari proprio su questo terreno. Non a caso infatti in questo filone polemico entrano spesso e volentieri sia coloro che combattono il governo Prodi – per esempio il Fini propagandista che richiama periodicamente e provocatoriamente l’attenzione su un D’Alema “amico di Hizballah” e pregiudizialmente ostile a Israele – sia coloro che vogliono pesantemente condizionare la nascita del futuro Partito democratico. Come per esempio il Corriere della Sera, che sapientemente riattizza la polemica tra D’Alema e le comunità ebraiche ogni qual volta essa sembra sopirsi.
Non si tratta naturalmente di una nuova e aggiornata versione della deprecabile e massimalista teoria del complotto. Tutt’altro. Il contrasto è trasparente, e perciò stupisce il fatto che un politico lucido come D’Alema ci si faccia tirare per i capelli. Del resto, se ciò avviene, è anche perché D’Alema ci mette del suo.
La maggior parte dei problemi della sinistra riformista oggi deriva dal fatto che è venuta a mancare, o si è troppo affievolita, quella battaglia delle idee necessaria a far nascere dall’eredità del passato una nuova cultura politica. La battaglia delle idee è per forza di cose di medio-lungo periodo, e a parte una breve e felice parentesi nel biennio 1994-96, essa è stata presto tralasciata sotto l’incalzare delle emergenze e della tattica. Rimanendo in tal modo la cultura politica della sinistra ancora dipendente da quella del defunto Pci, si è stentato a leggere e analizzare il nuovo mondo che stava nascendo, letto attraverso lenti opache. E questo vale sia per le politiche sia per le categorie fondanti della stessa cultura politica. Penso a un certo determinismo del marxismo, che genera a sua volta la convinzione positivista che la Storia sia progressiva, e che dunque basti essere dalla parte giusta per trionfare sull’avversario: il suo frutto tardivo è l’immobilismo e il conservatorismo. Oppure a una certa difficoltà nel dare il giusto peso al soggettivismo delle persone e delle avanguardie, dunque a comprendere l’impatto che può avere in questo nuovo mondo post-bipolare la figura del leader e la personalizzazione della politica: un deficit da cui Berlusconi ha tratto grande vantaggio.
Nel caso di D’Alema e del suo rapporto con l’ebraismo italiano, deleteria in particolare è stata la persistenza di un forte organicismo nella sua cultura politica: una delle conseguenze è un istintivo concepire le comunità ebraiche, italiane e non, come un tutt’uno con Israele. Esse invece sono diverse, diverse da Israele e diverse le une dalle altre, e diverse sono perfino al loro interno. Come ha scritto Amos Luzzatto “essere ebrei in uno Stato ebraico non è la stessa cosa che essere ebrei in un Comunità ebraica a Genova o a Firenze”, e aggiungerei che essere ebrei nella comunità di Livorno non è lo stesso che esserlo a Roma, ed esserlo a Roma vivendo vicino alle proprie istituzioni comunitarie non è lo stesso che esserlo a Roma avendo rapporti sporadici con quelle comunità. Insomma, anche tra gli ebrei avanza la società degli individui. Perché naturalmente anche gli ebrei sono italiani, come molti altri loro concittadini con una identità complessa. A questo poi si è sommato l’annichilimento che la seconda Intifada ha portato nel campo della pace, in Israele e nella diaspora. La seconda intifada e i suoi orrendi kamikaze, sommata all’11 settembre, ha prodotto una devastazione da cui il campo della pace si sta riprendendo da poco, e paradossalmente – ecco riaffacciarsi di nuovo il “deficit di legittimità” – solo grazie all’ultimo Sharon e al suo abbandono del dogma della Terra.
Insomma, la destra mondiale nel nuovo secolo si è impossessata del campo simbolico di Israele. Tale operazione politica è però oggi in fase discendente, perché sconta prima il fallimento della visione di Netanyahu e dei neconservatori di uno scontro di civiltà come modo per garantire la sicurezza di Israele e poi il dirompente mutamento di campo di Sharon, avvenuto – peraltro – proprio perché tale ricetta metteva in pericolo l’esistenza stessa di Israele. Che oggi tale operazione mostri dei limiti è provato anche dal crescente disagio degli ebrei di sinistra, dopo una lunga e forzata afasia post traumatica: in Italia ne è stata testimonianza la lettera aperta “Noi ebrei di sinistra e le critiche a Israele” pubblicata su Repubblica il 26 gennaio 2007. E allora forse D’Alema potrebbe cogliere con più prontezza tali mutamenti in atto sia nella cultura politica di Israele sia in quella delle varie comunità, e allo stesso tempo adeguare le parti più caduche della sua cultura politica. Lo stesso problema lo aveva mostrato nel suo ultimo saggio “Oltre la paura” che, serio e robusto per molti versi, mostrava tuttavia un certo normativismo e una certa debolezza di innovazione su Israele e la sua posizione nel nuovo mondo e nei rapporti con l’Europa. Occorre dunque innovare, e non è cosa che D’Alema non abbia nelle proprie corde. Cominciando a distinguere tutte le sfumature e le differenze che intercorrono tra un ebreo e un israeliano, e tra una componente della diaspora e un’altra. Per continuare con l’assumere piena consapevolezza del complesso e specifico rapporto tra passato e presente per chi è di identità ebraica. Come suggerimento finale vale ciò che David Grossman ha recentemente detto in una cerimonia sulla Shoà davanti all’intero corpo diplomatico accreditato in Israele: “Se volete veramente servire in un ruolo utile, qui, in quest’area, e aiutare Israele a risolvere il conflitto con i suoi vicini e i suoi nemici, dovete essere attenti non solo come diplomatici ma quasi come psicologi a tutte le ombre e le sfumature e le brezze che passano nell’anima israeliana”. Per cominciare a restituire Israele a Israele, e assicurare così la sua sicurezza ed esistenza, occorre cominciare da qui.