Ecco come dovrebbe lavorare una band. Dovrebbe evolvere in qualcosa di differente, mantenendo tuttavia la propria qualità… Posso dirti questo: la gente ODIERA’ il nostro prossimo album, ahahah!”. La risata di Johannes Persson, chitarrista, compositore e fondatore dei Cult Of Luna è trascritta nero su bianco anche nel testo dell’intervista originale, consegnando l’immagine di qualcuno deciso a proseguire in un percorso che rinnovi e rafforzi le basi del lavoro precedente. Qualcuno, soprattutto, più incline ad affrontare le critiche, anche feroci, a viso aperto, piuttosto che farsene condizionare anticipatamente. Date le premesse non è quindi una sorpresa che “Somewhere Along The Highway” (Aprile ’06) mostri una band in transito verso un sound coerente con le origini, eppure differente: capitanati da Persson, il cantante Klas Rydberg (dall’impressionante ugola al vetriolo), il secondo chitarrista Erik Olofsson, il bassista Andreas Johansson, il tastierista Anders Teglund, il poliedrico Magnus Lindberg (ingegnere del suono, percussionista e chitarrista), il batterista Thomas Hedlund e il nuovo arrivato Fredrik Kihlberg (seconda voce, chitarra e percussioni) lasciano le strutture più rigorose e matematiche del precedente, già ottimo, “Salvation” (’04) per un rarefatto viaggio all’inseguimento di quelle che fino a quel momento erano precise ma isolate tracce. Ancora discepoli dei concittadini Meshuggah e Refused (si suona bene, nella lontana Umea), risalgono acque già solcate dai cameristici Opeth e dagli eclettici, imprevedibili Motorpsycho, abbinando alla naturale potenza espressiva del loro ensemble la dimensione del suono colto dal vivo, nel momento della creazione e dell’improvvisazione. Come dichiarato dallo stesso Persson, “Somewhere…” è stato inciso in studio rinunciando volontariamente – salvo in alcuni passaggi – alle sovraincisioni e ai missaggi: ogni canzone (sette in tutto, per un’ora abbondante e serrata) è stata suonata per intero senza lunghe prove e senza rifiniture. Nessuna ricerca della perfezione, bensì della massima resa atmosferica ed espressiva. Pregio e difetto di questo lavoro, la struttura tema-variazione-tema condotta dalle chitarre e accompagnata con maestria dalla sezione ritmica rende grande l’immediatezza dei brani e dimostra l’eccellente affiatamento della band; niente assolo tradizionali, nessuno sovrasta gli altri, tutti cercano di offrire il meglio, tanto nei momenti più aggressivi (ai limiti dell’industrial) quanto nelle lunghe digressioni di pura strumentalità. Scorrono nell’ordine l’inno epico “Marching To The Heartbeats”, dove la chitarra è un lento riverbero dolente; “Finland”, dove Persson traduce in musica una forte – e non meglio precisata – esperienza personale vissuta nella confinante Finlandia (chiave da cercarsi in un testo criptico concluso dalla frase “Down on sore knees. Erase and begin. Under my eyelids, come forth light”. Chiaro, no?), raggiungendo minimalismi chitarristici che ricordano il Tom Verlaine di “Warm And Cool”, “Back To Chapel Town”, “And With Her Came The Birds”, con il banjo (!) che riporta ai Motorpsycho western dei due “Tussler”. “Thirtyfour”, dove si segnalano le percussioni e un clima più gotico. “Dim”, splendidamente costruita e interpretata, partendo da un’introduzione che potrebbe appartenere a qualunque genere rock e libera la voglia di suonare della band, sino a ricordare – con un salto di genere e di epoca non indifferente – “We Sing… The Cross” dei punkster Eddie And The Hot Rods, una scheggia di puro suono. Infine, la monumentale “Dark City, Dead Man”, quindici minuti che ripercorrono i precedenti cinquanta aggiungendo ombre psichedeliche e continuando a combinare grazia e potenza, ferocia e riflessione fino all’unico finale “classico” di tutto l’album. Perfetto complemento, i testi procedono per rapide immagini e apparizioni; polaroid emotive tra abbandono, sconforto, ricerca e paesaggi interiori.
“So he followed her footsteps, to the highway that sealed his fate/The wind blew all sand away. Faceless people that walked astray/Behind the dunes false hope awaits the ones that lost what was love” (“Thirtyfour”)