Vince chi resiste in piedi un minuto in più del nemico”, teorizzava il duro della Fiom-Cgil Claudio Sabattini nel mezzo delle trattative più complicate. Lo aveva ripetuto anche nel 1980, durante l’occupazione di Mirafiori. Era il capo delle tute blu in sciopero, in segreto aveva raggiunto l’accordo con la Fiat, un anno di cassa integrazione a rotazione. Ma la mediazione fallì e Sabattini fu defenestrato. Fu Luciano Lama a dargli il benservito: “Sai come vanno le cose nel movimento operaio, serve un capro espiatorio”. Sabattini sapeva, capì e lasciò.
Nessuno potrebbe essere più lontano dal leader storico dei metalmeccanici, chiamato “Faccia da ananas” e “Noriega” da amici e avversari, del mite, pallido segretario generale della Conferenza episcopale italiana monsignor Giuseppe Betori. Eppure, a ben guardare, la strategia che muove i vescovi italiani nella vicenda della legge sulle unioni di fatto sembra ispirarsi a quella del vecchio Sabattini: resistere in piedi un minuto in più del nemico.
È quello che non ha capito il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano quando la settimana scorsa, parlando a Madrid, appena uscito da un incontro con il premier Zapatero, ha provato a rassicurare la Chiesa chiedendo sulle coppie di fatto una legge “sintesi” e ricordando l’articolo 7 della Costituzione, quello che recepisce i Patti lateranensi. Riferimento non casuale, soprattutto in bocca a un ex dirigente del Pci: fu con il voto a favore dell’articolo 7 che Togliatti consumò una svolta non meno decisiva di quella di Salerno. Con quel voto a sorpresa il Pci dichiarava di sapere bene che la Chiesa e la società italiana si identificavano, erano la stessa cosa. E che se il Pci voleva essere davvero una realtà di massa, e non una setta isolata dal corpo vivo del paese, con la Chiesa doveva fare i conti, capirne le ragioni e le preoccupazioni: le stesse ragioni e le stesse preoccupazioni di gran parte della società italiana.
Si avverte questo dna nelle parole del laico Napolitano, quando ricorda al Vaticano: tranquilli, non siamo Zapatero noi, noi siamo figli di quella storia lì, cercheremo la sintesi. Il problema è che nel frattempo la Chiesa ha preso un’altra strada. C’è la consapevolezza, tragica, di non rappresentare più la società italiana, e da tempo. C’è una percezione drammatica del proprio ruolo, della propria funzione, del proprio futuro, opposta a quella trionfalistica che abbonda sulla stampa ufficiale della gerarchia ecclesiastica, specie dopo la vittoria dei referendum del giugno 2005 quando, a leggere Avvenire, l’Italia si sarebbe riscoperta cattolica.
In Vaticano, e nelle stanze della Conferenza episcopale dove si muove, ancora per poco, il cardinale Camillo Ruini, pensano il contrario: il cristianesimo è minoranza in Occidente, in Europa, in Italia. La secolarizzazione avanza, il messaggio cristiano fatica ad arrivare ai fedeli, non sfonda più tra le pareti domestiche e nelle coscienze dei singoli, ognuno vive come se Dio non ci fosse. C’è una sola differenza con gli altri paesi europei: in Spagna, Francia, Germania e ormai perfino in Polonia, la Chiesa è nelle catacombe del dibattito culturale. E’ sulla difensiva, marginale, impaurita. In Italia è un potere rispettato, temuto, forte di una presenza economica, mediatica e politica senza paragoni. È una minoranza agguerrita, che non ha più alcun interesse a rappresentare un paese che non si riconosce nei suoi valori. Non ha più l’ambizione di essere il tutto. Si limita a essere parte, a difendere il suo spazio e la sua identità, senza mediazioni.
La legge sulle coppie di fatto, da questo punto di vista, per la Chiesa non è un provvedimento qualsiasi. È una bandiera, certo: la difesa della famiglia, il no al piano inclinato che porta ai matrimoni gay. Ma anche una battaglia di principio che si può vincere solo restando in piedi “un minuto in più del nemico”, con la consapevolezza che non si può cedere. Qualcosa di molto simile a quello che ha rappresentato lo scontro sull’articolo 18 per la Cgil di Sergio Cofferati. La difesa della ragione sociale, della propria identità, ma anche di un diritto di veto.
Anche in quel caso un movimento sindacale in apparenza molto più forte e influente che nel resto d’Europa ha giocato la sua partita sul piano della mobilitazione e ha portato a casa il risultato: in apparenza, però. Perché poi i problemi restano: la mancanza di rappresentanza delle sigle storiche, la loro incapacità di parlare alle nuove professioni, ai giovani precari. Allo stesso modo, la Chiesa arranca, non riesce più ad ascoltare le domande e a dare risposte ai “precari della fede”. Preferisce buttarla in politica, dove i risultati sono immediati, un gioco di emendamenti presentati e ritirati, un pugno di leader in cerca di legittimazione disposti a farsi portavoce di veti e divieti ecclesiastici.
Il prezzo è enorme. In termini ecclesiali, è quello di cui scrive sulla Stampa il sociologo cattolico Franco Garelli: “È come se l’agenda della Chiesa si fosse improvvisamente appiattita sull’agenda politica, confinandola in un gioco di ruoli profano che rischia di far passare in secondo piano la sua funzione profetica”.
Ma anche in termini civili le conseguenze sono disastrose. Una volta accettato questo terreno di gioco, il copione è già scritto: riformisti contro radicali. Ma con un clamoroso scambio di ruoli: il rigido Ratzinger in veste di moderato, preoccupato di una Chiesa tutta schiacciata sulla politica; il cardinale Ruini intransigente difensore non tanto del valore della famiglia, ma soprattutto del diritto di intervento della Cei. E poi la Santa Sede che corregge Betori e poi corregge se stessa dall’impressione di aver corretto Betori. Il segretario di Stato Tarcisio Bertone, ideatore della Clericus Cup, che interviene perfino su Catania-Palermo. Ruini che tace. Il toto-presidente della Cei. Il Vaticano e la Cei diventano a loro volta una coalizione di litigiosi, una specie di centrosinistra allargato, qualcosa di grottescamente simile a un partito. I Ds, poniamo.
La Chiesa trasformata in una Cgil dello spirito – la Fiom-Cei – è quella vista all’opera in questi giorni, con il portavoce dei vescovi monsignor Claudio Giuliodori che arriva a dettare una nota alle agenzie per smentire incontri bilaterali con la Margherita. La Chiesa che si ritrova alla guida di un fronte variopinto con Mastella, Giovanardi, i teodem, Marcello Pera e la Santanchè, e sai che risultato. Mentre sui giornali impazzano retroscena di telefonate, udienze saltate, trattative fantasma, il papa in persona tirato in ballo.
Così facendo la Chiesa manca clamorosamente l’obiettivo di far uscire dai recinti clericali la sua sacrosanta battaglia in favore della famiglia. Anche la Chiesa, perfino la Chiesa, rinuncia a parlare all’insieme della società italiana, come ha saputo fare nei momenti più felici: la ricostruzione del paese, la lotta al terrorismo, la difesa dell’unità nazionale dalle spinte disgregatrici dei primi anni Novanta, una visione del mondo multipolare, del tutto coerente per un’istituzione naturaliter universale. E si accoda alle lobby, alle corporazioni, tutte impegnate nell’arcigna difesa del proprio interesse. Solo che il gioco è infinitamente più duro di un emendamento alla Finanziaria o di un contratto con i metalmeccanici. C’è la scomparsa di Dio, l’eclissi di una visione trascendente dell’uomo, il disfacimento di un tessuto di valori comuni. Di fronte alla crisi la Chiesa è smarrita come lo sono sempre stati i discepoli del Signore: nel Vangelo dell’ultima domenica c’è la confessione di Pietro con Gesù: ho gettato tutta la notte le mie reti nel mare e non ho pescato nulla. È l’ammissione di un fallimento individuale, ma anche collettivo.
Anche in questo inizio millennio le reti degli uomini che custodiscono il deposito della fede cristiana sono tragicamente vuote. E non possono essere riempite con un diktat alla Margherita sulle coppie di fatto, e neppure con la litania dei principi non negoziabili. Su quella strada non si porta a casa niente sul piano della Ditta, la sopravvivenza del messaggio evangelico nel mondo, e sul più modesto piano civile si contribuisce all’imbarbarimento particolaristico della società italiana, il tutti contro tutti, una somma di minoranze armate le une contro le altre, senza più un principio minimo condiviso. Si resiste un minuto in più del nemico, magari: ma poi ci si ritrova con un’inutile vittoria di principio, in mezzo a un panorama di macerie.