Pantani interessa. Piace. Vende. Ancora oggi, a tre anni da quella morte assurda, forse anche grazie ad essa. Al Pirata, in questi tre anni, sono state dedicate una decina di biografie, almeno otto canzoni (anche da artisti di una certa notorietà come Francesco Baccini e gli Stadio), una tesi di laurea, una fiction televisiva (un’altra è in progettazione) e infiniti articoli, manifestazioni, trasmissioni televisive. Con rare eccezioni, il registro prevalente di ogni atto di memoria nei confronti del campione romagnolo è un misto di nostalgia e rammarico, all’insegna del classico adagio secondo il quale “muore giovane chi è caro agli dei”.
Gli ingredienti perché la storia di Pantani sia degna di essere commemorata, in effetti, ci sono tutti: la gigantesca grandezza sportiva, la sfortuna più volte sconfitta ma sempre pronta a tornare, la spacconeria unita a un’insospettabile e micidiale fragilità, “i francesi che si incazzano e i giornali che svolazzano”, l’impossibilità di fare del caro estinto un santino accompagnata all’evidenza del fatto che il poveraccio ha pagato per tutti e per errori e cattiverie non solo sue.
Marco Pantani è una figura letteraria, un personaggio per il quale ci vorrebbe la penna di un grande scrittore. È stato un Raskolnikov con in più il vero talento, ma senza una Sonja. È stato un John Hartigan che non ha saputo liberarsi del nodo scorsoio e ha lasciato trionfare il Bastardo Giallo. È stato un Frodo che, giunto alla Voragine del Fato, non ha trovato il suo provvidenziale Gollum né un Sam capace di farsi carico del suo fardello. Un eroe tragico.
Il problema, semmai, è come la cultura sportiva italiana risulti inadeguata a serbarne e riproporne il ricordo. Siamo un paese dai molti pregi, ma incapace di reggere il gioco della tragedia. Ci è più consona, di gran lunga, la farsa. Quando va bene, la commedia. Al limite, il dramma a lieto fine. Di fronte a una storia che nega la possibilità di far tornare i conti restiamo ammirati, sì, ma anche perlopiù incapaci di reggerne il peso. Cerchiamo la morale della favola, senza capire che a volte la morale non c’è, e forse non c’è nemmeno la favola.
Settimana scorsa, ad esempio, la Rai ha trasmesso la fiction “Pantani – Il Pirata”. Quel che più risultava urtante è stato il fatto che in un’ora e mezza invece di provare a narrare la vicenda irrisolta e un po’ assurda di Pantani (nel senso proprio del “teatro dell’assurdo”, forma contemporanea della tragedia), sceneggiatori e regista abbiano tentato disperatamente di far quadrare il cerchio, evocando un po’ di tutto: la vita sentimentale, l’ambiente, la società, i falsi amici, il milieu stritolante del ciclismo professionistico, la speranza affidata ai bambini, il ricordo che non morirà mai, la vita che continua.
Tra qualche pregio – su tutti, le scene di ciclismo ricostruite con una precisione filologica sbalorditiva, al contrario di quanto accaduto in precedenti fiction dedicate ad altri campioni del pedale – e un’infinita pletora di macroscopici difetti tecnici – in particolare sceneggiatura, dialoghi e recitazione, ovvero quasi tutta la sostanza dell’opera – si percepiva chiaramente l’assenza dell’unica questione che davvero sarebbe valsa la pena di evocare: l’irresolutezza della vicenda di Pantani, povero cristo senza resurrezione.
A mostrare che il limite non è contingente, ma segno di una più generale attitudine verso le cose sportive che ci caratterizza, ci hanno pensato poi, nel resto della settimana, i variopinti commenti resi dai protagonisti del pallone sulla vicenda di un altro eroe dell’assurdo, Filippo Raciti. Le dichiarazioni sullo spettacolo che deve continuare, l’esplosione semantica del termine “tornello”, i presidenti delle società che minacciano scioperi, gli allenatori che dicono che a porte chiuse non è più calcio, i giocatori che parlano sempre e invece stavolta non dicono nulla, gli ultras che si fanno intervistare incappucciati, quelli che poi – durante il minuto di silenzio – fischiano la polizia, i giornalisti che imbastiscono il dibattito su tutto, sono sintomi della medesima cancrena.
A volte il silenzio sarebbe l’unica cosa da dire, di fronte alla morte di Pantani e di Raciti così come di fronte a quello scatto sui pedali nella tempesta del Galibier o a qualunque altro lampo di bellezza che lo sport sappia miracolosamente metterci davanti agli occhi.