Google fase suprema dell’imperialismo

Barbara Cassin è un’ottima studiosa del pensiero antico. Filosofa, è conosciuta in Italia per la pubblicazione di “L’effetto sofistico”, che è un modo di guardare la nascita della filosofia con un occhio ai suoi trucchi (trucchi costitutivi: non crediate che Platone e Aristotele non ne abbian fatti, di trucchi, per avere ragione dei sofisti).
Barbara Cassin ha ora pubblicato un libro, “Google-moi. La deuxième mission de l’Amérique”, in cui si occupa con gli strumenti della filosofia dello straordinario successo della Rete e in particolare del motore di ricerca Google.
In Francia le polemiche si erano accese già alla fine del 2005, quando Google annunciò il progetto di mettere a disposizione degli utenti, senza alcun introito diretto, milioni di volumi, ma attingendo esclusivamente da biblioteche americane (di recente però, prima biblioteca non anglosassone, ha aderito l’Università Complutense di Madrid). Il direttore della Biblioteca nazionale di Francia, Jean-Noël Jeanneney, insorse allora contro l’invasione culturale americana, e qualche mese dopo ci scrisse pure un libro su (poi tradotto e distribuito, sul finire dello scorso anno, anche negli States: “Google and the Myth of universal Knowledge”). In quella occasione, il rappresentante di Google-Europa difese l’iniziativa con toni missionari, e furono quei toni ad allarmare la Cassin: scoprire che Google definiva la propria mission niente di meno che in termini di organizzazione di tutta l’informazione del mondo, per renderla universalmente accessibile e utile, nonché di lotta senza quartiere del bene contro il male, le ricordava troppo da vicino altre missioni, abbastanza prive di senso del ridicolo, e purtroppo non digitali ma militari: quelle dell’America di George W. Bush.
È chiaro dunque che “Google-moi” è un libro fortemente polemico, e conseguentemente forte è il rischio che la polemica abbia il sapore delle patatine fritte: se gli americani le ribattezzano, ai tempi della guerra in Iraq, freedom fries, poiché french fries era un regalo che la spocchia culturale francese non meritava, i francesi mostrano di continuare a pensare che gli americani siano tutti stupidi e obesi, e che stupidità e obesità siano le dimensioni più proprie del fenomeno Google: numeri senza intelligenza.
Siccome però sul filo dell’analogia si può andare molto lontano, e soprattutto molto liberamente, sarebbe il caso di lasciare alla polemica infruttuosa il paragone tra la democrazia politica esportata a colpi d’arma da fuoco e la democrazia culturale esportata a colpi di clic, e di occuparsi solo di quest’ultima.
Per la Cassin, “Google è un campione di democrazia culturale, ma senza cultura né democrazia”. Proposizioni del genere fanno purtroppo tornare alla memoria lo scontro dei primi del Novecento fra la solida Kultur tedesca e la presunta frivola Zivilisation anglo-francese: e sappiamo com’è finita. Nel frattempo, i confini si sono spostati, e ora la culture è francese (o, bontà dei francesi, europea) mentre la superficialità della civilization è americana. Ma è il caso di erigere simili contrapposizioni? Certo, c’è del vero: la cultura è qualcosa di più solido della mera informazione, e anche la politica non è solo l’esercizio distratto di un clic (e nemmeno, a dirla tutta, di un voto). E tuttavia: è immaginabile che sia più colto o più democratico quel paese che si privi di uno strumento come Google? È discutibile che il numero di pagine cliccate in rete sia un buon indice del tasso di democraticità e di cultura di un paese, ma è certo che oggi il paese in cui quelle pagine non fossero a portata di clic non sarebbe affatto democratico, e molto probabilmente neppure colto.
La critica della Cassin potrebbe però essere ancora intesa così: d’accordo, Google è oramai insostituibile, ma il guaio è che, imponendo una sorta di monopolio di fatto sulla organizzazione delle informazioni, pretende di essere non solo necessario, ma anche sufficiente. E siccome non è affatto innocente né neutrale, siccome nasconde dietro la sua universale accessibilità scelte politico-culturali precise, quella pretesa autosufficienza rappresenta un’autentica minaccia alla democrazia e alla cultura. E qui, ahimè, torna in ballo l’America – e la polemica di cui sopra. Leggiamo infatti:
“Si può dire anche che Google è antidemocratico perché è profondamente americano senza darci modo di saperlo, senza darci il modo di rimettere in discussione la sua universalità, come se andasse da sé che americano è equivalente di universale. Noi siamo aristotelici quando parliamo, che lo sappiamo o no. Noi siamo americani quando googliamo, che lo vogliamo o no”.
Ecco il punto: Google è uno strumento universale, ma quell’universalità non è priva di precise connotazioni – culturali, politiche, economiche. Google pesca in rete i suoi contenuti con un algoritmo potente e affidabile, ma come e dove li prenda, come li organizzi e come ne disponga, e quale tipo di controllo con ciò stesso eserciti, tutto ciò non è affatto indifferente. Anzi: fa la differenza, e la fa a favore dell’America.
Enumero ora le ragioni per cui trovo queste considerazioni, che non condivido, salutari:
in primo luogo, perché ci ricordano che non c’è strumento, nella storia della tecnologia umana, che sia stato soltanto uno strumento neutrale per la realizzazione di fini, e non anche luogo di decisiva selezione dei fini possibili;
in secondo luogo, perché ci ricordano quel che dovremmo sapere da un bel po’: che se muta il modo di organizzare la conoscenza, di gestire le informazioni, di formare la memoria individuale e collettiva, mutano anche i concetti, le identità, le storie;
in terzo luogo, perché ci ricordano che Google è un potere, e che sempre l’accesso e la gestione dell’informazione è un potere, e che nessun potere può mai lasciarci tranquilli, specie quando ne è nascosta la responsabilità.
Ma queste considerazioni io non condivido su un punto: l’idea che in tutto ciò ci sia qualcosa da correggere drasticamente – insieme al pregiudizio che altrimenti faremmo il gioco dell’America (pregiudizio che tratto come tale, che cioè non discuto nemmeno). Cosa infatti dovremmo correggere? Se la Cassin ha ragione, le sue ragioni sono le ragioni sempre operanti nella storia, come lo stesso riferimento ad Aristotele mostra: c’è qualcuno che si sognerebbe oggi di contestare Aristotele, per il sopruso di averci inflitto una logica, cioè un modo di pensare e di dire, della cui provenienza imperialistica macedone non siamo neppure consapevoli ma che ci fa essere quel che siamo? La risposta giusta è: nessuno si sogna di farlo, e però tutti poco alla volta lo fanno. Nessuno, poiché nessuno ha modo di tirarsi fuori da quella logica con un guizzo improvviso della volontà, uno scatto di francesissimo orgoglio. E tutti, poiché la logica aristotelica, come ogni strumento, come ogni tecnologia, come ogni procedura, non è affatto immutabile e impermeabile, e di fatto, più o meno percettibilmente, muta, a volte in superficie altre volte più in profondità.
Se essere greci non è stata una tragedia, non lo sarà neppure essere googleani. C’entra l’America, lo scambio non sarà alla pari, le identità saranno messe alla prova ad ogni clic di mouse, ma neanche questa volta la partita è a senso unico. Ce la si può giocare, in Rete e fuori dalla Rete. E meglio con la Rete che senza.