Nei giorni scorsi si è avuta notizia della decisione di Dolce e Gabbana di ritirare dal solo mercato spagnolo una foto pubblicitaria, a seguito delle accese reazioni scatenatesi in quel paese. La foto ritrae un uomo ben rasato, a torso nudo (in jeans e occhiali), mentre costringe a terra, tenendola per i polsi, una donna, sotto lo sguardo complice e statuario di altri quattro uomini. L’Istituto della Donna ha protestato vivacemente, sostenendo che la foto ha un contenuto maschilista e incita alla violenza sulle donne, o perlomeno suggerisce e rafforza nell’immaginario collettivo atteggiamenti “che attentano contro i diritti delle donne e non favoriscono per niente la parità con gli uomini”. La protesta è stata raccolta da molte associazioni di consumatori e dal partito dei Verdi, che ha richiamato il divieto, contenuto nell’articolo 3 della legge generale sulla pubblicità, di diffondere immagini e spot che mostrano la donna in forme e modi che ne offendono la dignità.
Intervistati, i due stilisti hanno mostrato di considerare ingiustificata una simile reazione, degna di un paese culturalmente arretrato. Pur accogliendo le proteste, hanno così spiegato il loro punto di vista: “Cosa c’entra l’immagine artistica con il fatto reale? E’ un po’ come per la polemica sull’anoressia: è sbagliato credere che la moda sia colpevole. Così anche per l’arte, altrimenti bisognerebbe bruciare il Louvre e tanti altri musei, e mandare al rogo i quadri di Caravaggio! Vuol dire che la prossima stagione faremo una nuova campagna, mettendo una donna nuda sopra un uomo!”.
Sbarazziamoci anzitutto del giudizio sull’arretratezza della Spagna. A inizio d’anno, in Gran Bretagna, l’Advertising Standards Authority aveva criticato la campagna promozionale di D&G a causa del contenuto giudicato troppo violento delle immagini. Anche in quel caso, D&G si erano giustificati dicendo: è arte, pura e nobile arte. Ora, l’ultima delle nostre competenze consiste nello stabilire se D&G siano più avanti della Spagna e della Gran Bretagna e se dunque non si debbano considerare le loro campagne pubblicitarie misura dell’arretratezza o del progressismo del mondo. Quel che però vorremmo discutere, è la motivazione che i due stilisti italiani hanno addotto e che di solito viene addotta in circostanze del genere, dal momento che queste vicende possono essere prese a titolo di esempio del problema generale di una definizione dell’arte e del suo posto nella società.
La motivazione suona infatti così: siccome l’immagine è artistica, può rappresentare quel che vuole senza dovere sottostare a giudizi di opportunità, tantomeno a censura. Una simile rivendicazione dell’autonomia dell’arte non è ovvia, e meriterebbe anzi un lungo discorso, sia storico che teorico.
Quel che però si può mettere in luce senza troppo lunghi discorsi è il paradosso per il quale chi pretende di censurare un prodotto artistico mostra per ciò stesso di stimarlo grandemente. Giudicandolo pericoloso, lo stima capace di conseguenze ben reali sulla vita degli uomini: ad esempio, nel caso della pubblicità in questione, capace di consolidare e diffondere odiosi stereotipi maschilisti. Viceversa, chi sostiene che l’immagine artistica nulla c’entra con l’immagine reale, ben lungi dall’elogiare l’arte e dal farsi paladino dei suoi diritti, finisce col giudicarla un trastullo inoffensivo, privo di effetti reali.
Il che è ovviamente falso. E in verità tutto, nelle parole di D&G, è falso – oppure frutto di totale inconsapevolezza critica. A cominciare dal paragone con il Louvre: perché le foto di D&G non stanno affatto al Louvre, ma per strada. E non perché, essendo campioni di un fortunato trash erotico, non siano degni di esposizione in un museo: non siamo in grado di esprimere un simile giudizio di merito. Ma perché l’intero sistema dell’arte è mutato; l’esteticità è tracimata da lungo tempo fuori dai musei, e soprattutto non esistono più quei criteri di pura artisticità con i quali D&G vorrebbero che si giudicasse la loro foto pubblicitaria. Quanto poi al fatto che la foto oggetto dello scandalo riproduce un uomo che fa violenza a una donna, ma potrebbe indifferentemente rappresentare – almeno a giudizio dei due stilisti – una donna che fa violenza a un uomo, è una evidente sciocchezza. Se così fosse, allora e per ciò stesso quella foto non avrebbe alcun valore artistico: è come se qualcuno dicesse che, d’accordo, è l’Innominato che rapisce Lucia, ma si poteva fare anche, poniamo, che la mamma di Don Rodrigo rapisse Renzo (per amore del figlio, si capisce). In quella foto si tratta proprio di un uomo che sottomette una donna, e l’idea di sottomissione non pescherebbe allo stesso modo nell’immaginario collettivo, nel passato ancestrale, nei desideri inconsci o in non so cosa se fosse invece una donna a usare violenza su un uomo. (Ed è ancora un’altra faccenda, forse ignota a D&G, se lo faccia volendo confermare quella fantasia a sfondo sessuale o invece suggerire il modo di liberarsene).
Difendendo la loro immagine artistica a quel modo, sostenendo cioè che non c’entra nulla con il fatto reale, i due stilisti mostrano dunque, se non altro, di avere una cattiva idea dell’arte: solo un ingenuo può ancora ritenere che l’arte se ne stia buona nei musei e non abbia effetti sul mondo. Significa questo che bene sarebbe censurare D&G (oppure i cantanti rock, o – che so? – i disegnatori di fumetti), perché non ne inventino un’altra alla prossima occasione? Ovviamente no. Il problema non è l’istituzione di commissioni di censura, ma magari l’irrobustimento della capacità di censire della società in generale.
A Dolce e Gabbana accade infatti anche questo: che la cotoletta che servono nel loro ristorante milanese venga giudicata dalla giornalista Camilla Baresani del Sole 24 Ore una vera schifezza (e le linguine scotte, e l’insalata di carciofi “vagamente legnosa”!), e che loro per tutta risposta ritirino la pubblicità dal giornale. Orbene, non sarà un modo per censurare il giudizio, questo? Come diavolo si può giudicare in autonomia una cotoletta, se sul giudizio pesa il ricatto degli investimenti pubblicitari?