La crisi di Walter

Due illusionisti di talento, che hanno cominciato insieme alla scuola di un vecchio professionista, rompono molto presto il loro sodalizio e passano il resto della loro esistenza nell’ossessione di mettere in scena ogni volta un numero migliore di quello dell’altro. Se il primo sperimenta in scena un nuovo trucco, il secondo si nasconde tra il pubblico per sabotarlo al momento giusto. E viceversa. La faccenda si complica quando uno dei due s’inventa un numero d’altissima scuola: sparisce dietro una porta e riappare all’istante in un altro punto del palco tra il tripudio del pubblico. L’antagonista va in crisi e si arrovella per capire dove stia l’inganno. Il vecchio maestro di entrambi lo convince che c’è una sola spiegazione possibile: la persona che riappare dietro la seconda porta non è il mago in persona bensì un sosia e dunque l’unico modo di imitare il numero dell’ubiquità è trovare da qualche parte un doppio somigliante, vestirlo e truccarlo a dovere e farlo apparire in scena al momento giusto, naturalmente senza fargli aprir bocca. Il mago “perdente” segue il consiglio e il gioco funziona. Anche lui riempie le sale di un pubblico plaudente, ma dentro di sé continua a tormentarsi, convinto che dietro l’esecuzione originale del rivale debba esserci per forza una tecnica segreta molto ben dissimulata.
Avrete riconosciuto la trama di un film, nemmeno così memorabile, uscito di recente nelle sale: “The Prestige”. Come tutte le storie che trasformano un semplice antagonismo in un’epica dei duellanti, anche questa ha una struttura in cui è facile riconoscere i topoi di molti duelli veri. Per esempio, “The Prestige” è particolarmente azzeccato per ricostruire le dinamiche della rivalità tra Walter Veltroni e Massimo D’Alema. Che abbiano cominciato insieme alla medesima scuola, attingendo a un repertorio e magistero comune (Enrico Berlinguer), non v’è dubbio. Che abbiano rotto presto, facendosi la guerra e misurando il proprio successo anche dal posizionamento dell’altro, è altrettanto evidente. Come pure lo è chi tra i due sia il mago capace di inventare per primo il numero dell’ubiquità. Perché non c’è dubbio che nel prestige del postcomunismo all’italiana è D’Alema quello che insegue, e Veltroni quello che inaugura i numeri d’alta scuola. Perlomeno fino alla recente crisi di governo (e alla fine del film), ma ci arriveremo dopo.
E’ qui inutile soffermarsi troppo a lungo sulle ragioni di questa gerarchia. Lo fa in modo eccelso un libro da poco uscito, “Compagni di scuola” di Andrea Romano, che è un’ottima fenomenologia veltroniana. Il disvelamento di un bagaglio da illusionista di gran classe. Tutta la carriera di Veltroni è riassumibile nel numero dello sparire dietro una porta e riapparire sorridente dietro l’altra. Il giovane dirigente comunista Veltroni, quello che sul periodico della Fgci “Città futura” inneggiava alla “rivoluzione proletaria” per parlare alla moda come i più suadenti capi movimentisti, riappare anni più tardi non solo non comunista (quello è un trucco da sagra di paese) ma anticomunista. Come in dissolvenza incrociata, Veltroni spunta magicamente mentre sfumano le immagini di tutti i personaggi che ha selezionato con cura negli anni per trasfigurare in loro la sua personalità, il volto di Bob Kennedy, ma pure di John, l’assolo di un musicista dalla “vita breve”, persino il broncio di qualche vecchio portiere su una figurina Panini anni Sessanta. Il Veltroni che da trent’anni fa politica di professione è capace di volatilizzarsi in un attimo per lasciare posto all’antipolitico, che apre la seconda porta e si lancia in un biasimo del professionismo della politica. Veltroni sparisce dal suo ufficio di segretario al Botteghino un secondo prima che sul partito si abbatta il peggior risultato della storia e si rimaterializza vergine e vincente al Campidoglio. La tecnica è mirabile. Il risultato spettacolare. Tutti pensano: il segreto non può essere un sosia. Soprattutto, come ogni grande illusionista, Veltroni vive da anni nell’annuncio del suo numero definitivo, il finale per lasciare il pubblico a bocca aperta inchiodato sulle poltrone a rimirare il proprio stesso stupore: il ritiro dalla politica. La sparizione finale. L’eroica uscita di scena. La costruzione del mito. Veltroni come Guevara, ma senza passare dalla Bolivia. Veltroni come Mina, ma senza ingrassare cinquanta chili.
Mica facile. Il problema quando sei il numero uno è che gli altri ti studiano, ti seguono, ti copiano. Magari ai pionieri riesce ancora di eseguire un certo numero meglio di chiunque altro, ma nel frattempo si evolvono le tecniche, in tanti si cimentano sul tuo stesso terreno e ti costringono a fare qualcosa in più. Ora, chi ha visto il film (e chi preferisce vederlo senza guastarsi la sorpresa proseguendo nella lettura) sa che, in un certo senso, aveva ragione il vecchio maestro. Il trucco dell’illusionista si basava sì sul principio del sosia, ma un sosia tutto particolare: il mago ha un gemello. E il rivale, che non è a conoscenza del fatto, pur di andare oltre si fa costruire una macchina che crea in scena un vero doppio in carne e ossa che a ogni spettacolo finisce annegato in un cassa d’acqua e stipato in un magazzino insieme a tutti gli altri doppi defunti (si dirà: “beata immaginazione”, ma quanti D’Alema in cassa giacciono da qualche parte insieme a trattini, sigle, e gargonze?). Succede così al mago in vantaggio che non solo il suo repertorio non è più originale, ma rischia di diventare il palcoscenico privilegiato di altri.
Da un po’ di tempo è questo il problema di Walter, almeno da quando il Partito democratico ha smesso di essere una suggestione ed è diventato un progetto politico concreto. Il sindaco di Roma, che nella nascita del nuovo soggetto intravede l’ennesima possibile transustanziazione del proprio ego politico, sente che la creatura potrebbe crescere a immagine e somiglianza altrui. Il numero delle meraviglie, il pubblico del centrosinistra andrà a vederlo nei teatri dove si esibiscono i rivali di sempre. Bisogna aggiornare il repertorio. E non è semplice. Esempio: pochi mesi fa Veltroni si fa intervistare da Repubblica e dice che così non va bene, che il Pd non può nascere dalla mera somma di Ds e Margherita e che occorre aprire di più il processo costituente, lasciando entrare quasi tutti i partiti della coalizione. “Bisogna tornare allo spirito dell’Ulivo del 1996”, spiega. E questa formula magica (“lo spirito dell’Ulivo”) copre la sostanza della proposta, cioè trasformare il Pd in un nuovo inservibile ed eterogeneo carrozzone elettorale dove Mastella, Pecoraro e magari anche Diliberto si dovrebbero affiancare a Fassino e Rutelli. Plaudono gli ulivisti alla Parisi, che leggono nella sortita un “più uno” rispetto alle tesi dei partiti fondatori. Plaudono i demoscettici alla Angius, che confidano in una moratoria sul progetto. Plaudono i socialisti alla Mussi, che nella versione veltroniana del Pd vedono l’annacquamento dell’operazione e dunque la sua morte politica. Il trucco riesce, ma il dramma è che si vede. Perché non c’è coreografia, non c’è “altrove”: è un trucco “di parola”, una prestidigitazione di medio livello, come quella di cui si servono certi maghi per distrarre a chiacchiere l’attenzione del pubblico dal punto e dal momento in cui avviene la gabola. Non che Veltroni non sia bravo con le parole, solo che le sue parole funzionano quando manca ogni referenza col reale. Se si parla di Roma, il lessico deve comprendere parole come respiro, luce, anima; non strade, buche, traffico. Se si parla di politica, questa deve essere “bella” (come nel titolo di un libro del nostro di qualche stagione fa). La lezione con cui Walter sta girando l’Italia in tour è concepita perché, pur senza mai parlare di sé, a ogni passaggio, a ogni citazione, lo spettatore pensi: “Quest’uomo saprebbe come fare”. Funziona. L’importante è non chiedergli mai conto del “come”.
Sfortuna vuole per Walter che questo sia un incrocio politico – tra riassetto della rappresentanza politica, crisi contingente del governo e crisi strutturale della Seconda Repubblica – dove glissare sul “come” è difficile. Persino per un professionista come lui. Se c’è da tirare su un declinante Prodi, non basta evocare lo spirito di Martin Luther King o di Madre Teresa di Calcutta (a meno di non credere ai miracoli della santa). Allora Veltroni prova due strade. La prima è tacere. Mentre tutt’intorno a lui si assiepa una folla che gli tira la giacca chiedendogli di schierarsi, lui finge pensosa lontananza. Nei giorni della crisi l’Unità pubblicava la trascrizione di un discorso pubblico del sindaco su vicende completamente altre dalla crisi dell’esecutivo. Titolo: “Volevamo cambiare il mondo”. Lunare. Ma perfetto per volare alto mentre il teatrino celebra le esequie anticipate del Professore.
Ma anche questo è un numero interlocutorio. Se a bocce ferme puoi scambiare un bigliettino con Pier Ferdinando Casini e immaginare maggioranze che non debbano più fare i conti con i Caruso da una parte e i Borghezio dall’altra, strappando applausi, editoriali, retroscena simpatizzanti, quando c’è da cambiare davvero la riforma elettorale devi spiegare con quale sistema puoi raggiungere lo scopo. Devi usare parole che rimandano alla realtà. Per non tacere del tutto, e come se niente fosse successo in Senato, Veltroni ripropone il suo modello elettorale. Adattare il sistema delle comunali a livello nazionale. Lui lo chiama “eleggere il sindaco d’Italia”. Che vale come “lo spirito dell’Ulivo”: espressioni che si incarnano nella sua persona, senza toccare equilibri consolidati (col modello comunale non un solo partito sarebbe a rischio di esistenza e il centrosinistra continuerebbe a essere quello che è, una rissosa coalizione di tredici partiti). Del resto, le parole che contano sono quelle tre. Sindaco d’Italia. Funzionano. Evocano. Ma è un altro trucco di parola. E si sente. Non ti fa riapparire sorridente dietro la seconda porta. Serve tutt’al più a scaldare il pubblico nell’intermezzo. Meglio tornare al silenzio. Perché la scommessa di Veltroni è chiara. Lasciare che il repertorio altrui si logori. Non darsi troppo al pubblico. E poi tornare al vecchio numero. Per acclamazione. Per nostalgia. Tra un disastro e l’altro, la magia può ancora riuscire. O magari no. Forse la seconda porta, quella da cui il Veltroni reduce dal Campidoglio dovrebbe riapparire col suo sorriso magico sulla tolda del Pd, è chiusa a doppia mandata.