La probabile scissione dei Ds appare oggi come il frutto tardivo di una stagione conclusa. La stampa segue con passione Fabio Mussi e le sue manovre di avvicinamento ora a Enrico Boselli, impegnato in una nuova riunificazione socialista con Gianni De Michelis, ora a Fausto Bertinotti, impegnato nella riunificazione della sinistra radicale. Una passione che assomiglia all’entusiasmo con cui si cercano le ultime ciliege della stagione.
Nanni Moretti è tornato a fare il regista (al cinema), Sergio Cofferati è tornato a fare il riformista (a Bologna) e i girotondi sono tornati a essere quello che sono sempre stati: un gioco da bambini. Persino i siti internet di quel movimento che i giornali ci hanno raccontato come l’espressione più rappresentativa del “popolo della sinistra”, ormai, non sono più attivi o sono aggiornati al 2003. Le pagine dei quotidiani sull’imminente scissione dei Ds, in questo contesto, danno una sensazione di vintage politico.
L’effetto sul Partito democratico è un’inevitabile accelerazione. All’indomani dei congressi di Ds e Margherita, che a questo punto si concluderanno con un pronunciamento unanime, si aprirà dunque la fase costituente. E qui si misurerà la capacità dei gruppi dirigenti di mobilitare persone, forze sociali e intellettuali, energie nuove e passioni antiche. Qui si misureranno anche l’ambizione e la forza del progetto, nella partecipazione che saprà suscitare nel paese e negli effetti che questo determinerà – in un senso o nell’altro – sull’intero sistema politico. Se cioè si rivelerà, come sostengono i critici, un fattore di ulteriore instabilità del centrosinistra e del governo, o viceversa un elemento di razionalizzazione dell’intero quadro politico, suscitando un processo analogo anche nel centrodestra. Allo stato dei fatti vi sono segnali in entrambi i sensi, a conferma di quanto la situazione sia ancora aperta e tutta nelle mani di chi dovrà dirigere questo processo. E di chi vorrà parteciparvi.
Nella parabola del correntone c’è però una lezione da trarre. In questi anni la minoranza diessina ha segnato l’intero dibattito pubblico sulla sinistra. Ancora fino a poche settimane fa la sua influenza è stata determinante nel rendere impervio il cammino verso il Partito democratico. E oggi, quella stessa minoranza, appare costretta a una frettolosa scissione dai primi dati arrivati dalle sezioni riunite a congresso.
La lezione da trarre è duplice. Da un lato, si potrebbe dire che la proposta del Partito democratico sta già realizzando i suoi effetti, riportando alla dura realtà dei numeri quotazioni troppo a lungo gonfiate da una gigantesca bolla speculativa, allo stesso modo in cui le primarie hanno ricondotto alle giuste proporzioni i vari Ivan Scalfarotto (il candidato vezzeggiato dai media e adorato dai blogger) o Simona Panzino (la candidata “senza volto” dei movimenti no global). Dall’altro lato, però, appare evidente che la costruzione del Partito democratico non basterà a mettere la sinistra e l’intero sistema politico al riparo dai raider. Per far questo occorrerà un lavoro di lunga lena. Occorreranno, innanzi tutto, intellettuali e dirigenti che abbiano ancora il gusto della battaglia politica e culturale. Se la fase costituente che si aprirà all’indomani dei congressi di Ds e Margherita saprà farli emergere, una buona parte di questo lavoro potrà già dirsi compiuta.