La Sharia mediatica

A quanto pare, nei giorni in cui sulle prime pagine di tutti i giornali le polemiche sul caso Sircana si mescolavano al dibattito sulla missione italiana in Afghanistan, nessuno ha notato una singolare contraddizione. Mentre in parlamento si discuteva della lotta contro i talebani a Kabul, a Roma, grazie alla pubblica gogna inflitta al portavoce del governo, si celebrava ancora una volta l’introduzione della Sharia mediatica, attraverso la pubblicazione di intercettazioni telefoniche prima e di fotografie di dubbia provenienza poi. Dal crollo del sistema politico nel ’92, e con particolare intensità a partire dall’estate del 2005, la pubblicazione di intercettazioni e verbali di interrogatorio è divenuta infatti lo strumento principale delle lotte per il potere in Italia.
Attraverso la pubblicazione di un’intercettazione telefonica, in questi giorni, si è aperta una pubblica discussione sulla virtù di Silvio Sircana, colpevole di avere accostato l’automobile a un transessuale per qualche minuto, sei mesi fa. Il portavoce del governo non è accusato né sospettato di avere commesso alcun reato; in uno stato di diritto, pertanto, dalla magistratura non dovrebbe avere nulla da temere. Silvio Sircana, infatti, non è stato condannato, né accusato, né indagato da alcun tribunale della Repubblica; ma è stato invece indagato, accusato e condannato da un tribunale ben più vasto e pervasivo, come molti altri prima di lui: un’infinita teoria di politici, vallette, manager e portavoce chiamati pubblicamente a rendere conto della propria vita privata e delle proprie private conversazioni.
Se all’origine del caso Sircana vi fosse stata semplicemente la fortuna o la tenacia di un paparazzo, se l’esistenza delle foto fosse stata rivelata da un giornale scandalistico, il problema sarebbe molto diverso. E forse non sarebbe neanche un problema. Ma questa vicenda non ha nulla a che fare con le dinamiche tradizionali del giornalismo scandalistico. E non solo perché nel settembre del 2006, nessun paparazzo al mondo avrebbe avuto una sola buona ragione professionale non diciamo per fotografare Sircana – prima a cena e poi lungo tutto il tragitto di ritorno dal ristorante – ma nemmeno per riconoscerlo. Non solo per questo dettaglio, che pure ci pare assai significativo, ma perché l’intera vicenda emerge ancora una volta da un’inchiesta della magistratura, il cui primo dovere – almeno in uno stato di diritto – è quello di tutelare le persone coinvolte nelle indagini. Non di sputtanarle.
L’inchiesta che ha portato alla campagna di stampa contro Sircana è la prosecuzione del procedimento che ha visto prosciolto, dopo avere perso il posto e dopo la pubblica umiliazione, il portavoce di un ex ministro degli Esteri. A questo proposito, in un recente convegno, alcuni giornalisti hanno svolto il seguente ragionamento: se un uomo politico manifesta preferenze sessuali per elefanti e pinguini sono fatti suoi, ma se poi trasmissioni televisive del servizio pubblico cominciano a riempirsi di elefanti e pinguini, allora i gusti personali e le abitudini di quel politico possono non avere ugualmente alcuna rilevanza penale, ma acquistano piena rilevanza giornalistica. L’interesse pubblico della notizia, come si dice, a quel punto è innegabile.
L’obiezione è sensata, ma anche controproducente, almeno se l’obiettivo che la ispira è difendere la libertà di stampa e il buon nome dei giornalisti italiani, sottolineando la differenza tra l’interesse pubblico delle intercettazioni riguardanti l’ex portavoce della Farnesina e quelle riguardanti l’attuale portavoce del governo. Non perché la differenza indicata non sussista, ma perché non è nel merito delle due vicende che va ricercato il senso di quello che è accaduto. L’analogia tra i due casi sta a monte, o per meglio dire, alla fonte: nel caso delle vallette in visita alla Farnesina, proprio come nel caso Sircana, la domanda centrale è infatti sempre la stessa – e stupisce che lo si debba ricordare a tanti maestri di giornalismo – perché è la prima domanda alla base di qualsiasi inchiesta giornalistica: qual è la fonte della notizia? Lo stato della libertà di stampa in Italia, per tornare all’esempio citato, è ben testimoniato dal fatto che dinanzi al proliferare di elefanti e pinguini nelle trasmissioni televisive del servizio pubblico non un giornalista ci abbia visto qualcosa di strano e nessuno abbia dunque fiutato quella notizia tanto carica di interesse pubblico, prima che qualcun altro decidesse di offrirla ai giornali in un servizio preconfezionato, attraverso intercettazioni e verbali accuratamente selezionati e prontamente inoltrati alle redazioni. Anche qui, se la vicenda dell’ex portavoce della Farnesina fosse emersa da un’inchiesta giornalistica, invece che da un’inchiesta giudiziaria, ci sarebbero stati mille motivi per dedicare al caso decine di articoli e cento editoriali indignati, chiedendo pubblicamente le dimissioni del portavoce. Ma le cose non sono andate così.
La rimozione del problema delle fonti comporta il venir meno di qualsiasi filtro giornalistico, quindi il venir meno di ogni controllo di attendibilità e completezza dell’informazione, tracimando nella totale deresponsabilizzazione di una categoria degradata al ruolo di un corriere della spazzatura. Una spazzatura, giova ripetere, accuratamente prodotta, selezionata e assemblata altrove, secondo criteri che nulla hanno a che vedere con l’interesse pubblico dell’informazione e molto hanno invece a che vedere con l’interesse privato degli informatori.
Se questo dunque è il problema a monte, come emerge a ogni passo dal coinvolgimento di spezzoni dei servizi segreti in tutte le vicende citate, resta un problema non meno serio a valle. E cioè nell’assenza di qualsiasi argine al dilagare di quella spazzatura, una volta che mani esperte abbiano aperto la prima falla nel sistema dell’informazione (il cui primo dovere è quello di selezionare e verificare le notizie).
Nel momento in cui discutevamo animatamente su come diffondere la cultura e il rispetto dei diritti dell’individuo in Afghanistan e in Medio Oriente, nel nostro paese abbiamo importato la cultura giuridica dei talebani, istituendo un supremo consiglio dei guardiani della virtù e sottoponendo tutti i cittadini al suo controllo. E così, si dice, chi non abbia “nulla da nascondere” non avrebbe motivo di preoccuparsi. E allora, domandiamo, che cosa avevano da nascondere le tante vallette e personalità pubbliche che in questi anni sono finite sui giornali, oggetto di ogni sorta di insinuazione, senza alcuna possibilità di difendersi? L’esempio ipocrita di quei pochi che hanno potuto e saputo volgere la situazione a proprio favore, cavalcando l’onda di un’insperata popolarità, non risarcisce e non compensa i tanti che sotto quell’onda sono finiti, messi al bando dalle trasmissioni televisive in cui svolgevano il proprio lavoro, esposti al pubblico ludibrio per le parole in libertà di terzi con i quali nulla avevano a che fare, trascinati sulle prime pagine dei giornali sotto titoli cubitali che nessuna tardiva precisazione potrà mai risarcire. Dinanzi a un simile meccanismo perverso solo un eremita che vivesse sin dalla nascita sulla cima di una montagna, senza parenti né amici né conoscenti in vita, potrebbe vantarsi a buon diritto di non avere nulla da nascondere.
La verità è che in questi anni in Italia si sono messe in discussione le basi dello stato di diritto. Tanto varrebbe reintrodurre la tortura e la pubblica gogna: se l’unico diritto meritevole di tutela è quello della collettività dalle malefatte dei criminali, per quale ragione bisognerebbe legare le mani ai magistrati, costringendoli a ricorrere a mille cavilli per sbattere in galera senza processo il primo sospettato del più innocuo dei reati, con le astruse motivazioni alla base delle continue richieste di carcerazione preventiva? Il degrado del nostro dibattito pubblico è giunto a tale segno, che già ci pare di intendere l’obiezione: perché sotto tortura si confessa anche quello che non si è commesso, dunque la tortura è uno strumento inefficace. Non inumano e inaccettabile, ma inefficace. Non si capisce perché allora in tante parti del mondo, e non solo in Medio Oriente, vi si ricorra tanto di frequente. Infatti la tortura è un mezzo efficacissimo, non per la raccolta di confessioni, ma per la raccolta di informazioni, successivamente verificabili, e quindi anche per la raccolta di prove. Per sapere dove si nasconde un complice, dove si possono trovare le prove di un crimine, dove occorra indagare e cercare, non c’è mezzo migliore al mondo.
Qual è la ragione per cui tante personalità pubbliche sono state travolte dalla pubblicazione di intercettazioni e verbali di interrogatorio, dovendo dimettersi e ritirarsi a vita privata per poi venire prosciolte da ogni accusa, e spesso senza nemmeno essere mai state accusate di avere commesso alcun reato? La ragione sta nel fatto che i loro comportamenti privati, così come emergevano da stralci delle loro conversazioni o persino da stralci di conversazioni altrui, sebbene non penalmente rilevanti, non apparivano conformi alla pubblica virtù codificata dai giornali e dai loro irreprensibili proprietari. La conseguenza di tutto questo è che oggi, in Italia, per disfarsi di un avversario ingombrante non è necessario incastrarlo fabbricando false e complicate prove a suo carico, basta pubblicare un’attenta scelta delle sue conversazioni. Prima o poi, quale uomo politico, manager, giornalista o portavoce – come chiunque di noi – non si abbandonerà a giudizi sprezzanti su altre persone, non si esprimerà in maniera volgare o violenta o razzista o crudele, non fornirà materiale sufficiente a metterlo in grave imbarazzo e costringerlo a farsi da parte? Non c’è nemmeno bisogno di avere un’amante o di andare a puttane. Per incorrere nei rigori della Sharia mediatica, amministrata a sua discrezione dal supremo tribunale della virtù pubblica in Italia, basta molto meno.
Rispetto a un simile meccanismo, l’ordinamento di tanti paesi islamici cui vorremmo insegnare la cultura del diritto, laddove ancora oggi sono in vigore la Sharia e la tortura, presenta dunque enormi vantaggi. Innanzi tutto perché a decidere chi, come e quando debba essere colpito è la pubblica autorità, e non altri. Nell’Italia di oggi, invece, come appare evidente a chiunque legga i giornali, sono altri.