Nel suo “Il crucifige e la democrazia”, Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale, riprendeva pagine famose di Hans Kelsen, che vale la pena ricordare. C’è Gesù, e c’è Pilato, procuratore romano della Giudea, che lo interroga. Pilato è un relativista scettico abbastanza annoiato, ma anche abbastanza gentile da lasciarsi istruire da Gesù: “Quid est veritas?”, gli chiede perciò. Purtroppo Gesù non gli risponde chiaro e tondo. Anzi, non gli risponde affatto. E Pilato, in mancanza della verità, ricorre ad una procedura formalmente democratica: rimette la decisione al voto popolare. Lascia cioè che sia il popolo a decidere quale detenuto rimettere in libertà, com’era usanza, secondo Marco, nei giorni della Pasqua. A quel che dicono i Vangeli, il popolo scelse per acclamazione: “Barabba! Barabba!”. Gesù fu così messo a morte. E Kelsen chiosa: questo grido popolare è un forte argomento contro la democrazia. Ma a una condizione: di essere così sicuri della verità da essere pronti a imporla contro il parere popolare.
In verità Kelsen scrive: a condizione di essere così sicuri della verità “come lo era, della sua, il Figlio di Dio”. Ma quanto Gesù ne fosse sicuro – o quanto pensasse, pur essendone sicuro, che fosse buona cosa imporre la verità – è assai difficile dire, visto che rimase in silenzio.
Non entro in dispute esegetiche o teologiche e non dubito che il silenzio di Gesù si ritrovi perfettamente nel modo in cui la Chiesa interpreta ancora oggi il dovere di dire la verità alle pilatesche autorità del nostro tempo. Ma la chiosa di Zagrebelsky al passo evangelico è appunto questa: il vero amico della democrazia non è Pilato, come riteneva Kelsen, ma proprio Gesù. Pilato è solo un opportunista che si appella demagogicamente al popolo, anzi alla folla, per rimanere in sella senza troppe grane. È uno scettico, non crede a nulla e quindi nemmeno nella democrazia, ma sa come servirsene. Gesù ha invece una verità assoluta, ma accetta di tacere per far posto alla parola dell’altro e rendere possibile il dialogo. Gesù dimostra così che fede e democrazia sono compatibili. Che in democrazia non ci sia posto per verità assolute, non significa infatti rinunciare alla propria personale verità, ma essere disponibile a proporla in uno spazio pubblico di civile e reciproco confronto, senza violenza o sopraffazione.
Su questi temi Zagrebelsky è tornato nell’incontro organizzato da Libertà e Giustizia all’Unione culturale di Torino (ne ha riferito l’Unità del 21 marzo). Nell’occasione, Zagrebelsky s’è spiegato così: un conto è non credere a nulla, come Pilato, un altro è dare spazio alle credenze di tutti. La democrazia “non chiede a nessuno [tantomeno a Gesù] di rinunciare alle proprie convinzioni. Ma partendo da queste, richiede che nel dibattito pubblico i dogmi non vengano fatti valere come tali perché altrimenti le regole della democrazia si inceppano”. Un conto insomma è essere relativista, un altro è che relativiste siano le istituzioni. Per le istituzioni, essere relativiste è un pregio, non un difetto. Col suo silenzio, le accettò persino il Figlio di Dio.
Ovviamente, non la pensa così la Chiesa, che lo scorso 17 marzo ha rivolto a “medici, infermieri, farmacisti e personale amministrativo, giudici e parlamentari, ed altre figure professionali direttamente coinvolte nella tutela della vita umana individuale” (quasi tutti, direi) un eclatante invito a una “coraggiosa obiezione di coscienza” (invito ripetuto sabato scorso dal Papa: “Va salvaguardato il diritto all’obiezione di coscienza, ogniqualvolta i diritti umani fondamentali fossero violati”). Il commento di Zagrebelsky, nell’intervento citato, non è stato tenero: la Chiesa erige steccati; la Chiesa lancia un grido di sovversione, la Chiesa non si mostra disponibile al dialogo; la Chiesa non favorisce una convivenza costruttiva.
Ma in mezzo a questa comprensibile polemica, Zagrebelsky ha infilato un’affermazione di senso comune, così largamente condivisa, così ampiamente diffusa, che diviene importante mostrare quanto poco sia ovvia e scontata. Afferma infatti l’emerito costituzionalista di vedere nel momento attuale “dei rischi per la democrazia, che è il regime più debole che esista ma anche il più prezioso”. Ora, non è che io non veda rischi, e che non sia anzi disposto a riconoscere che la democrazia è costitutivamente a rischio. Quel che non vedo, è la sua debolezza. Più precisamente: quel che non condivido, è l’idea che la democrazia sia il più debole dei regimi. Questo superlativo proprio non so spiegarmelo. Non so come sia misurata questa debolezza: se è per esempio in base alla probabilità che i regimi democratici siano travolti dal fondamentalismo, la cosa mi pare quanto meno opinabile, e sarei curioso di conoscere i fondamenti di simili previsioni. Se si tratta di forza militare, mi pare che gli Stati Uniti, paese democratico, siano forti abbastanza. Né so immaginare quale paese europeo si rafforzerebbe svoltando verso l’autocrazia. In generale, ho l’impressione che si confondano piani diversi di considerazione: l’uno reale, l’altro ideale. Ed è evidente che la democrazia ideale sia debolissima: ma in quanto ideale, non in quanto democrazia. Per la banale ragione, cioè, che qualunque condizione definita in termini ideali non può che riuscire debole – direi persino irreale.
D’altra parte: quale motivo c’è di pensare che le democrazie occidentali si siano affermate per un fortuito accidente, per una miracolosa congiuntura, contro le leggi della natura e quelle della politica? Se le democrazie si sono affermate è perché, nelle condizioni in cui si sono affermate (condizioni che qui non specifico), sono più forti, non più deboli: così va il mondo. E sono più forti (non solo ma anche) per ciò che sono in grado di garantire ai cittadini in termini di libertà, e cioè proprio grazie al relativismo delle istituzioni. Viene meno la voglia di cambiarle, quelle istituzioni, visto lo spazio di libertà che assicurano.
E invece leggiamo il contrario. Che il relativismo ci rende deboli, che il relativismo infiacchisce l’Europa: mina la sua identità. Sarà. Ma proprio per l’alta considerazione che ho della verità, cosa rara e preziosa, continuo a pensare che la robustezza istituzionale di un paese sia inversamente proporzionale al numero di verità condivise di cui ha bisogno per stare su. Figuriamoci se quelle verità dovessero essere imposte per legge.
Rimane il processo a Gesù. È vero: il popolo manda libero Barabba, e mette a morte il Messia. Ma, volendo continuare con questo libero trattamento allegorico del racconto evangelico, dove sta il regime non democratico che l’avrebbe salvato? Oppure Gesù era venuto per instaurare una teocrazia?