Siamo postmoderni, abbiamo perso l’innocenza (la quale, un po’ come la verginità, una volta andata è andata per sempre). Pensavo a queste cose l’altra sera, al cinema, mentre guardavo 300, il film tratto dalla graphic novel di Frank Miller sulla battaglia delle Termopili. Niente da fare. Non è più possibile ripetere quel gesto che, quando eravamo bambini, era capace di darci una delle gioie più pure che serberemo come ricordo per il resto dei nostri giorni: acquistare il biglietto, sprofondare nell’oscurità della sala, dimenticarci del mondo per due ore, riempirci gli occhi di colori e movimento. E dire che di colori e movimento il film in questione non fa economia.
Insomma: a me m’ha rovinato la civiltà dell’informazione. Di 300, in pratica, sapevo già tutto prima di vederlo. Non solo ne conoscevo trama e sceneggiatura, ma avevo ben presenti anche tutte le interpretazioni, le esegesi, le dietrologie che il film ha prodotto prima ancora di uscire nelle sale.
Secondo Mahmoud Ahmadinejad, ad esempio, si tratterebbe di un film che “cerca di falsificare la Storia dando un’immagine barbara dell’Iran”. I trecento opliti spartani che combattono come ninja e tengono a bada le masse asiatiche di Serse sarebbero, dunque, metafora dell’Occidente in armi che ritiene di dover combattere uno scontro di civiltà a colpi di bombe e celluloide. Tu vuoi farti l’atomica? Noi ti sanzioniamo; se non recedi magari ti bombardiamo; però, per l’intanto, ti scateniamo contro i muscoli unti di Gerard Butler nelle sembianze di re Leonida, con tutto l’armamentario retorico di cui solo un film tratto da un fumettone può essere capace. Di tutto questo apparato ermeneutico, supportato oltretutto dall’autorevole giudizio dell’Accademia delle Arti di Teheran che ha pure presentato una protesta in merito all’Unesco, l’aspetto più sconcertante è il pensiero che Mahmoud Ahmadinejad, con quello di cui deve preoccuparsi di questi tempi, abbia avuto tempo, modo e voglia di vedere il film e di dire la sua.
Qui da noi ferve il dibattito se si tratti di un film fascista. Gli spartani, si sa, gettavano i bambini malformati dalla rupe e schiavizzavano gli iloti (dei quali, peraltro, nel film non c’è traccia). C’è poi, ovviamente, l’esaltazione dell’onore guerriero, del machismo, forse addirittura di un imperialismo sottilmente mascherato da difesa di sangue e terra. Miller, in proposito, è sempre stato un autore guardato con un certo malcelato sospetto dagli apparati intellettuali politicamente corretti. Il suo mondo popolato di eroi idealisti non sopporta le sottigliezze, le indecisioni e i percorsi lenti e laboriosi del dibattito democratico, o tuttalpiù li rubrica come strumento della falsa coscienza, mezzo attraverso il quale i corrotti impongono a tutti il loro giogo. Il vero eroe, suggerisce Miller, non discute. Semmai, spara. Oppure elabora e presenta la sua opinione a colpi di lancia.
O ancora, una lettura opposta e simmetrica alla precedente: Leonida/Bush alla guida di Sparta/Usa, pronta a difendere l’intero occidente anche a costo della vita di giovani spartani/americani, mentre l’imbelle resto della Grecia/Europa vive in mollezze, sognando un impossibile dialogo con nemici che a dialogare non pensano affatto. Deve essere questo il motivo per il quale il film negli Stati Uniti sta spopolando e battendo record di incasso. Si sa, a quegli adolescenti (poco) cresciuti che sono gli Americani piace cantarsela e suonarsela.
Naturalmente, è spuntata sulla stampa statunitense anche una lettura autocritica, secondo la quale Bush sarebbe non Leonida, bensì Serse: il despota sanguinario che, forte di una indiscutibile superiorità di mezzi, finisce per impantanarsi in una guerra che non può essere vinta a causa della determinazione feroce degli avversari e della morfologia territoriale e antropologica del paese invaso.
A questo punto, consapevole come già detto che l’innocenza (“Ma è solo un film tratto da un fumetto! Non possiamo vederlo mangiando pop corn, e basta?”) è irrimediabilmente perduta, mi stupisco che non siano già emerse altre due possibili ermeneutiche che avrebbero l’indubitabile merito di inserirsi nel dibattito pubblico italiano come un coltello caldo nel burro.
La prima: c’è un tizio, Serse, che si agghinda in modo molto buffo e che si crede infallibile, un vero e proprio dio in terra. Abituato ad avere intorno a sé non collaboratori, ma gente che non fa altro che tributargli omaggio, stenta a comprendere le motivazioni di Leonida, uomo libero e laico, che combatte per l’individuo e la razionalità, etsi Serse non daretur. Se Pannella, Odifreddi o, nell’altro campo, Ruini o Bagnasco vanno a vedere il film, siamo rovinati.
La seconda: nel film Leonida è un omofobo di quelli duri e puri, modello Prosperini. Non si fa scrupolo di definire “effemminati” gli ateniesi ed è un quintale di testosterone ambulante (per tacere dei suoi trecento uomini, rudi guerrieri tutti “gloria e onore” che gridano “Uh-Ha!” ogni trenta secondi). A Sparta gli uomini sono uomini e le donne donne: uno spottone per la famiglia tradizionale. Le schiere del suo avversario, al contrario, sono un rutilante catalogo di travestitismo e fetish che non sfigurerebbe nella più chiassosa delle sfilate del gay pride. Serse stesso, a ben vedere, per come è reso nel film fa molto drag queen (manca la parrucca, ma abbondano i fantastici piercing). Pertanto, la sfida tra i due è la nuova guerra dei sessi: non più maschio contro femmina, ma etero contro gay, straightness contro travestitismo, identità contro differenza. E però, al contempo, è un inno all’attrazione fatale tra i due mondi opposti: Leonida/Butler è la nuova icona gay d’America e, nella scena decisiva del film nella quale i due sovrani dialogano durante una tregua della battaglia, volge maliziosamente le spalle al suo interlocutore il quale gli aveva appena chiesto, come unica cosa, di inginocchiarsi davanti a lui, con quel che ne consegue in termini di honny soit qui mal y pense. Il tutto messo davanti agli occhi in modo molto più efficace e divertente di qualunque film di Ozpetek.