La filosofia è meditatio mortis. Lo diceva Cicerone, riferendosi a uno dei passi più celebri di tutta la storia della filosofia, questo: “Tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano passi inosservato che la loro autentica occupazione non è altra se non quella di morire e di essere morti”. Queste parole si leggono nel Fedone: Platone le mete in bocca a Socrate, poco prima che questi beva il veleno che gli toglierà la vita. All’alba della modernità se ne ricordò un giovanotto di trentotto anni che si sentiva già vecchio, Michel de Montaigne. Annoiato dalla vita pubblica, si ritirò nel castello di famiglia, fra i suoi amati libri, e cominciò a compiere solitari esercizi di meditazione sull’uno e sull’altro, su Platone e su Cicerone, e su filosofi e poeti, su retori e grammatici, per cercare di convincersi di questa idea: che imparare a morire significa imparare a vivere; che non temere la morte rende migliore la vita; che per non temere la morte bisogna prepararsi ad affrontarla, e abituarsi all’idea, per non essere troppo attaccati alla vita, e non dolersi di doversene separare. Immagino che Montaigne ripetesse a se stesso queste parole come una specie di mantra, come un incantesimo con il quale guarire dalla paura della morte, e fare stoicamente della vita il monumento funebre di se stessi. L’incantesimo, però, non dovette riuscire. E sul finire della vita, Montaigne cambiò completamente idea. Non bisogna prepararsi a morire, scrisse, ma casomai prepararsi contro le assurde preparazioni alla morte, e “se non sapete morire, non datevene pensiero. La natura vi istruirà sul campo, in modo completo e sufficiente; essa compirà a puntino questa operazione per voi, non preoccupatevi”.
Ma oggi qualche motivo di preoccupazione in più ce l’abbiamo. Il recentissimo caso di Terri Schiavo lo dimostra. Dopo quindici anni di battaglie legali, il marito ha ottenuto che fosse staccato il tubo che alimentava la moglie (la prima, perché nel frattempo il signor Schiavo ha trovato una nuova compagna, dalla quale ha avuto due bimbi). Un caso di eutanasia non più dirompente di molti altri, ma sul quale si è accesa l’attenzione dei media, per alcuni elementi di fatto che hanno inasprito la vicenda: il contrasto fra il marito e i genitori di Terri, anzitutto, e la battaglia giuridica fra organi giudicanti e assemblee legislative ancora in corso. Sembra che vi siano tutti gli elementi di una “tragedia classica”, come ha scritto sabato il Foglio, tirando frettolosamente in ballo Antigone. Invece manca l’essenziale. Manca all’intera vicenda, e manca all’uomo contemporaneo, quel senso del destino che permetteva di ammutolire ammirati e atterriti dinanzi alla scelta dell’eroe di infrangersi contro il fato. Per noi, la tragedia non consiste affatto nell’irrevocabilità del destino, ma tutt’al contrario nella nostra possibilità di deciderlo. Il nostro sapere ammutolisce non dinanzi al destino, ma dinanzi a noi stessi: e noi non siamo più grandi nella sconfitta contro gli dei o il fato, come l’eroe tragico, ma piccoli nella vittoria che la tecnica ogni giorno riporta sulla natura.
In fondo, la linea del conflitto di principio che si scatena in tema di eutanasia si può tracciare con facilità: in una prospettiva laica, non vi è alcuna autorità superiore all’individuo che possa decidere nelle questioni che riguardano la sua vita e la sua salute. In una prospettiva religiosa (e in specie cristiana), la vita e la salute di ciascun individuo non sono nella sua intera disponibilità. Questo conflitto non è risolubile, e si può solo sperare che chi difende una prospettiva religiosa accetti che uno Stato laico non la assuma tal quale e non la traduca in principi normativi. Ma quel che vicende come questa di Terri Schiavo insegnano, è che non c’è più un sapere adeguato alla nostra esperienza del morire. Rileggete Montaigne: non è più vero che il morire sia la più autentica e decisiva delle esperienze, e che ci si possa e ci si debba rapportare alla nostra morte tra le mura del nostro castello interiore; ma non è vero neppure che la natura ci istruirà sul campo, così che non dobbiamo darcene pensiero. Non c’è più una verità del morire: non ci sono più istruzioni, e non c’è più un destino. E così, non solo non sappiamo quando Terri Schiavo morirà, ma non sappiamo neppure quando sapremo di nuovo morire.