Contro il molletismo veltroniano

Prosegue, la personalissima e personalistica battaglia per il Partito democratico del nostro sindaco-romanziere, Walter Veltroni. Lo abbiamo ascoltato al congresso dei Ds romani evidenziare al meglio l’impianto della propria visione politica. E siamo ancora più convinti di quanto sostenuto nel recente passato: il signor sindaco è un lussureggiante dispensatore di suggestioni, ha imparato molto dai cinematografari più scaltriti di cui è promotore, di quelli che troveranno sempre un altrettanto scaltrito produttore. E suggestioni, in effetti, le evoca anche in noi. Ci ricorda certi vecchi leader della sinistra neolatina infiammatori di platee e proiettori di grandi immagini (un tempo erano parole d’ordine ideologiche, cambia poco) ma incapaci di individuare gli arnesi culturali e organizzativi del cambiamento. Come Guy Mollet, attivo nella Quarta Repubblica francese, da cui il termine molletismo. Che designa coloro i quali, intransigenti e focosi sull’ideale elevato, si estinguono poi nei fatti in un mondo deprimentemente politicante. Proprio perché l’ideale è tanto splendente che serve solo a entusiasmare i militanti, e ha difficoltà a trovare piani di mediazione efficaci con la realtà. Sembra di paragonare due realtà lontane millenni, ma a ben vedere molletismo e arte mediatica odierna possono benissimo essere accostati, se ai militanti passionali si sostituiscono le platee televisive o i lettori di Repubblica, e se alle ideologie si sostituiscono splendenti emozioni generazionali, oppure conferenze su “la bella politica”.
La ricetta veltroniana di Partito democratico invoca il matrimonio tra radicalità e riformismo e ne conclude che per questo nel Partito democratico dovrebbero confluire un po’ tutti i partiti dell’attuale Unione, riformisti o meno. Tra le suggestioni evocate c’è per esempio quella della Ostpolitik di Brandt, che in piena guerra fredda rappresentò appunto un caso di radicalità da parte di un riformista. E’ proprio qui che Veltroni si dimostra un affabulatore, un catalogatore di grandi nomi (prosegue come in un rosario citando pure Palme e i Kennedy). Perché si può certamente affermare che la Ostpolitik fu una grande novità, ma si può concludere anche che essa nacque grazie a un sistema politico di partiti ben saldi, finanziati, legittimati come quelli tedeschi. E si può argomentare che, quindi, le grandi novità non nascono per forza da contaminazioni ardite predicate da un ispiratore come lui, ma magari da un organismo collettivo ben radicato in una tradizione storica eppure vitale. E’ immodesto e non credibile ritenere che siccome il partito democratico alla Veltroni avrebbe lui come leader, Muccino alle politiche culturali e Pecoraro Scanio coordinatore della segreteria produrrebbe grandi Ostpolitik in serie. Non sono le formulette che contano. Ci si immerga, per piacere, nella storia: la Ostpolitik è stato un momento di una soggettività europea e tedesca in crescita (questo, in fondo, il senso storico di quella scelta) che oggi si manifesta ancora più apertamente. Per esempio con la missione di pace in Libano. L’opera di Brandt, insomma, non è affatto morta e inascoltata, non necessita di medium iniziati che ci riportino in contatto con essa, ma solo (ora come allora) di veri leader espressi da veri partiti.
Veltroni si affanna a ripetere che “le più grandi novità” del mondo progressista (il femminismo, la cultura della differenza, l’ambientalismo…) sono nate al di fuori della sinistra socialista. E’ vero? In parte sì, ma come sempre le cose sono più complesse di quanto si possa dire in un entusiasmante comizio. E’ vero che si tratta di correnti diffuse nella società, nella sinistra in senso lato, e non fabbricate dai partiti nei loro corsi di formazione quadri. Ma è persino più vero che inezie come il diritto di voto alle donne e la parità salariale fra i sessi hanno visto i partiti socialisti già un secolo fa indispensabili protagonisti. Innovazioni, queste, senza dubbio rilevanti per le lotte delle donne che sarebbero seguite nei decenni. E sull’ambientalismo: se lo ricorda per caso Veltroni che il primo vero grande impegno dell’Onu sullo stato del pianeta si chiama rapporto Bruntland, condotto cioè da Gro Harlem Bruntland, già premier (donna anche lei, a proposito) socialdemocratico norvegese? In quell’epoca anche noi, con Giorgio Ruffolo (socialista, o no?), abbiamo contribuito all’arricchimento della politica in senso ambientalista. E insomma, una ragione ci sarà se le socialdemocrazie nordiche hanno prodotto una legislazione ambientale così avanzata che si è già tradotta in tecnologia da esportazione. E una ragione ci sarà se la Spd ha governato per due legislature con i verdi di Fischer: cioè non in una coalizione all’italiana o alla francese dove c’è di tutto, ma proprio a tu per tu con i Grünen, il capostipite dei partiti ambientalisti.
Tutto questo va puntualizzato per almeno due motivi: innanzitutto (e magari sarà utile che Left Wing e altri tornino sul tema) il Partito democratico ha molte ragioni, ma non quella di una del tutto fantasiosa infertilità della socialdemocrazia, o di un suo disfacimento. E poi perché mostra come i grandi partiti organizzati, fra tanti ritardi, non sono rimasti sordi alle molte novità degli ultimi decenni. Le grandi novità arrivano, almeno nella percezione condivisa degli uomini, gradualmente e diffusamente, e allo stesso modo vengono poi assunte e analizzate. Non si può pretendere che una cultura politica sgorghi subitanea e netta come le ispirazioni narrative del nostro sindaco. Sono processi spirituali distinti, e quelli collettivi sono laboriosi, ma come si è visto non necessariamente più torpidi, né più miseri e tardi di quelli che Veltroni ci dispensa.
Occorre serietà e realismo nell’assumere il mutamento, anche passione, ma meno utili sono i predicatori dell’urgenza quando si inseriscono in dibattiti planetari in atto da decenni in tutti i grandi partiti della sinistra mondiale. Partiti con difficoltà che, sia chiaro, non ignoriamo. Ma forse seguendoli più da vicino si apprenderà che serve ancora la lettura collettiva e partecipata di masse di individui dalla coscienza (parafrasando i nostri vescovi) “criticamente formata”. Nonché, aggiungiamo noi, anche “robustamente organizzata”. E si concluderà che la ricostruzione di tutto questo anche in Italia è alla base del Partito democratico dopo un quindicennio in cui il sistema politico è stato “come d’autunno, sugli alberi, le foglie”.
Fra la “politica della fontanella” e “le grandi inedite visioni” – questi i due espliciti riferimenti della “bella politica” veltroniana – deve insomma esserci qualcosa capace di leggere e di reggere il tutto. E questo qualcosa non può essere un partito-frullatore, pieno di culture politiche e sensibilità indeterminate che si rivelano al momento troppo divaricate anche per una coalizione. Serve piuttosto la coesione di gruppi omogenei di quelle culture: un partito dei riformisti sociali e democratici (social-democratici non si può dire esplicitamente) cristiani o meno che siano. E un’alleanza di tale partito con la sinistra più radicale. Alzate lo sguardo e vedrete che è così che le sinistre sono costruite nel nostro continente. Tranne che nel Regno Unito. Dove però, non so che ne pensi Veltroni, persino dopo l’epoca Blair i sindacati hanno il loro cospicuo blocco di voti garantito. Un secolo dopo la fondazione del partito è ancora così.
Insomma, vorremmo dire: un po’ di tranquillità e un po’ di modestia. Si prendano una pausa Veltroni e tutti quelli che sognano il nuovo che più nuovo non si può. Da noi il Partito democratico tra riformisti sociali e democratici è per molti versi impresa più ardita (su questo Angius e Mussi non hanno torto) di quanto di più ardito abbia pensato Blair. L’impresa, certo, la vorremmo molto migliore di quello che è, e la possiamo anche chiamare fusione a freddo. Eppure, fatto inusuale per una fusione a freddo, ha nondimeno portato e porterà parecchie centinaia di migliaia di persone (se non milioni) a discutere e decidere con diritto garantito di partecipazione. In questi quindici anni di nuovismi esasperati, di Reti, Alleanze Democratiche, Girotondi e Sinistre Sommerse, nessuno aveva mai fondato un partito o un movimento con tanta partecipazione e con il sostegno di circa un terzo dell’elettorato.