Si parla spesso, a proposito di letteratura, cinema e fiction in genere, del concetto di sospensione dell’incredulità. Si tratta di un meccanismo elementare: il narratore stipula un patto con il destinatario della narrazione e lo conduce in un mondo nel quale le regole del gioco (fisiche, cronologiche, geografiche, etiche, psicologiche) possono essere anche molto diverse da quelle della realtà nella quale viviamo: Superman può volare, Merlino lancia incantesimi, Obi Wan Kenobi dispone di una spada laser, la Terra di Mezzo non compare su nessun atlante che non sia anch’esso fittizio, Tex spara infallibilmente ai cattivi senza bisogno di processo e rimane il nostro eroe.
Restano due problemi. Il primo riguarda la verosimiglianza del mondo immaginario. Senza scomodare la poetica di Aristotele e le sue considerazioni sulla mimesi letteraria, si può dire che anche il mondo più inverosimile, se vuole risultare convincente e valere la pena di una visita tramite l’immaginazione, deve possedere almeno una caratteristica del mondo reale: deve essere coerente con se stesso. Se Superman può volare, deve poter volare sempre (al netto della kryptonite, s’intende). Il secondo, ben più importante, decisivo e delicato, riguarda i modi tramite i quali il narratore rende esplicita quella che potremmo chiamare la convenzione d’inverosimiglianza e la comunica al suo interlocutore. Se il patto non è chiaramente enunciato, possono accadere tante cose diverse: ci può essere un effetto sorpresa, anche non spiacevole (è, ad esempio, il meccanismo che sta alla base dell’umorismo: il narratore sembra voler dire una cosa, ma all’improvviso ci si rende conto che ne dice un’altra – “un uomo entra in un caffè. Splash”); ci possono essere delusione e irritazione; ci può essere un totale fraintendimento.
L’ultima opzione è quella che può generare gli esiti più imbarazzanti. Qualche anno fa, ad esempio, venne pubblicato un libro esilarante che fingeva di essere una guida turistica di un’inesistente nazione dell’est europeo (la Molvania). Tutto, dallo stile della copertina al tono dei testi alle didascalie delle immagini, era una perfetta imitazione delle guide più in voga. Ovviamente, la chiave parodistica e ironica dell’operazione era piuttosto evidente, ma non poteva esserlo troppo, altrimenti l’effetto comico scaturente dalla mimesi sarebbe andato in buona parte perduto. Mi sono sempre chiesto che cosa sarebbe potuto succedere a un lettore sprovveduto che avesse preso quel libro come una vera guida. A tutti noi credo sia capitato talvolta, nella vita, la sconcertante situazione di avere a che fare con qualcuno che si mostra radicalmente incapace di interpretare adeguatamente un contesto ironico. In determinate occasioni, l’evenienza può perfino rivelarsi pericolosa.
Il registro ironico è forse il più esposto alla possibilità di un fraintendimento, ma non è certo il solo. Ogni meccanismo narrativo che si fondi sulla verosimiglianza (pertanto, ogni finzione letteraria) è esposto al rischio. È il motivo per il quale ai bambini troppo piccoli non si raccontano storie spaventose o truculente: non hanno ancora affinato sufficientemente la capacità di distinguere il registro della fiaba da quello del resoconto veridico.
Ma veniamo al punto: Leonardo Colombati ha pubblicato il suo secondo romanzo per Rizzoli. Si intitola “Rio”. È la storia di un ventenne della Roma neoricca, figlio di un becero palazzinaro, che tenta in qualche modo di emanciparsi dal padre e dalla sua visione della vita trascorrendo due anni a Londra, stringendo una strana amicizia con un anziano e celeberrimo scrittore italiano incontrato casualmente colà, che gli fa da Caronte nell’universo della liberazione culturale e sessuale, e arrampicandosi professionalmente, per la verità senza troppo entusiasmo, nelle grazie di un boss ebreo statunitense della grande finanza.
Colombati ha dovuto intervenire pubblicamente per chiarire che alcune frasi contenute nel romanzo a proposito di Berlusconi, della società italiana, del ruolo e del significato della letteratura non sono attribuibili a lui. A lui Colombati. Almeno non nel senso in cui sarebbero attribuibili a lui i virgolettati di un’intervista. Nel romanzo, in effetti, vengono pronunciate da vari personaggi. È il giovane protagonista che a un certo punto sbotta: “Ma non vi rendete conto che Berlusconi è l’unico mito che questo paese ci ha regalato negli ultimi vent’anni? Un dono del cielo così come Kennedy e Hoover lo sono stati per la letteratura americana? O forse avete intenzione di scrivere il romanzo definitivo sulle ganascette di Prodi, sulle sciarpe di D’Alema? Apritevi alla Bellezza di ciò che è Osceno!”. In un altro passo del romanzo il suo mentore – il vecchio scrittore – pontifica sulla letteratura: “Leggiamo un romanzo, lo chiudiamo. Dopo tre settimane cosa resta impresso? Trama e personaggi, signori”.
L’autodifesa di Colombati è giunta dopo che diversi critici lo hanno tirato per la giacca da una parte e dall’altra: c’è chi dice che sia di destra, chi lo colloca a sinistra, chi lo accusa di aver simulato un passaggio da sinistra a destra per vendere più copie, chi lo taccia di essere uno di sinistra che però è strumentalmente critico proprio verso la società culturale di sinistra, chi gli rinfaccia il disimpegno, chi gli rimprovera il disprezzo verso il ruolo etico della letteratura.
Ora, Colombati avrà pure le sue idee politiche e poetiche. Può darsi che Colombati pensi effettivamente le cose che ha messo in bocca ai suoi personaggi, così come può darsi che no. Ciò che lascia sconcertati è che non venga colta, come condizione preliminare di qualsiasi critica, la sostanziale irrilevanza della cosa. Il punto è che molti critici hanno parlato di Colombati come se tra Colombati e il suo romanzo, i suoi personaggi, il mondo verosimile ma fittizio in cui è ambientata la storia che narra non ci fosse alcuna distinzione. Come se vicende e personaggi messi in scena nelle pagine di “Rio” fossero la fotografia di un mondo reale e l’espressione diretta e non mediata delle sue opinioni, e non, come lo stesso Colombati è stato costretto a precisare, una borgesiana “filza di parole”. Come se il modo in cui la letteratura “parla” del mondo non potesse essere altro che una descrizione protocollare del mondo stesso.
Ma forse il motivo di tanta cecità interpretativa va ricercato altrove. Un ambiente letterario, intellettuale, della critica che sta ancora a baloccarsi sui concetti di “impegno” e “disimpegno” è, a sua volta, un mondo fittizio e verosimile con regole tutte sue, nel quale è impossibile concepire l’idea di una trasfigurazione della realtà che non sia meramente ideologica. Un mondo fuori dal tempo come quello di Jurassic Park. Un mondo i cui abitanti negli ultimi vent’anni non devono aver fatto altro che riproporre i propri riti sempre più esangui nei soliti templi sempre meno frequentati, senza accorgersi né dell’inattualità dei riti né del fatto che, intanto, i lettori hanno preso a frequentare altri ambienti, altri templi. Un mondo nostalgico, asserragliato nella sua presunta superiorità antropologica e culturale, che scambia la pesantezza per serietà e concepisce ogni diversità come eresia.
Allora, così come non avrebbe senso la comparsa di pirati della Malesia in un noir con protagonista il detective Marlowe né Amleto che risolve i suoi dubbi consultando l’onnisciente Hal 9000, è forse insensata a priori qualsiasi lettura che parta da presupposti di critica veteromilitante (sia in senso politico che per quanto riguarda “la funzione” della letteratura) per inquadrare il lavoro di uno scrittore che, almeno, dà l’idea, negli ultimi vent’anni, di essersi guardato un po’ intorno.