Il dibattito sul Partito democratico si è chiuso – o si sta definitivamente chiudendo – con il voto degli iscritti a Ds e Margherita. Il mediocre spettacolo cui siamo condannati ad assistere in questi giorni e nei giorni che verranno, ci si può scommettere, ne è solo la stanca ripetizione. Il confine su cui si combatte, concretamente, la battaglia per la laicità della politica e delle istituzioni non passa tra Ds e Margherita. Al contrario, il migliore alleato di quella Conferenza episcopale che oggi chiede cieca obbedienza ai politici cattolici è proprio quella sinistra laica che i cattolici democratici vorrebbe riconsegnarli in ostaggio a una nuova Democrazia cristiana, priva però del pluralismo e dell’autonomia che un grande partito popolare come la Dc garantiva. E a chi oggi torna a domandare quali siano i valori di fondo del Partito democratico, noi che pure la parola “valori” vorremmo fosse bandita dal lessico politico, perché falsa e fuorviante, possiamo rispondere senza esitazioni proprio così: autonomia e pluralismo.
Il confine su cui si combatte, concretamente, la battaglia per un diverso ordine internazionale e per una nuova politica estera, che abbia al centro l’Europa come soggetto politico, non passa tra Ds e Margherita. Passa semmai tra la sinistra riformista e la cosiddetta sinistra radicale. Quella sinistra radicale con cui oggi la minoranza dei Ds vorrebbe aprire l’ennesimo cantiere, cominciando da Rifondazione comunista, che pure ci risulta assai più distante dal Partito del socialismo europeo di quanto non sia Francesco Rutelli. Basterebbero queste banali constatazioni, per misurare la sincerità delle polemiche di questi giorni.
La verità è che non c’è più niente da dire. Il Partito democratico sta nascendo. I congressi nazionali di Ds e Margherita che si riuniranno tra il 19 e il 22 aprile dovrebbero pertanto votarne solennemente il manifesto, che non a caso è stato il principale argomento del dibattito interno, e il principale bersaglio polemico – nei Ds – delle minoranze ostili al progetto. E così tutte le associazioni e i singoli cittadini che vogliano partecipare alla costruzione del nuovo partito, riunendosi e sottoscrivendo il manifesto, devono acquisire il diritto di eleggerne la costituente al pari degli iscritti ai partiti sulla base del principio: una testa, un voto. Come in quel manifesto, giustamente, sta scritto. E indietro non si torna.
Le lagne di coloro che criticano la ristrettezza del progetto, definendolo una fredda e burocratica fusione di apparati, valgono quanto le lamentele e le esitazioni di quei dirigenti di partito che ne temono, al contrario, la deriva plebiscitaria e incontrollata. Gli uni e gli altri mostrano così tutta la debolezza della propria posizione: a cosa servono autonominati leader della società civile che non siano capaci di suscitarla e mobilitarla, questa benedetta partecipazione popolare, senza l’accordo preventivo di dieci, cento o mille segreterie di partito? E a cosa servono partiti organizzati e ramificati che non siano capaci di mobilitarsi per primi, misurando nel consenso e nella partecipazione popolare la propria funzione? Quando è troppo tardi per voltarsi indietro, in politica, vuol dire che è arrivato il momento di cominciare a correre. Meglio perdere che perdersi in chiacchiere.