Ogni giorno che passa, la lettura delle cronache e dei commenti che appaiono sui maggiori quotidiani a proposito di Telecom Italia ci confermano in una nostra antica convinzione: viviamo in un paese meraviglioso. Anzi, nel paese delle meraviglie.
In ogni paese del mondo – quel pianeta che gira attorno al sole nello spazio, s’intende, non quello del cappellaio matto e dei conigli parlanti – il controllo della principale azienda di telecomunicazioni è affare di sicurezza nazionale, politica internazionale e servizi segreti. Nel mondo di oggi, quello in cui si parla tanto di convergenza tecnologica e investimenti in ricerca e sviluppo, tutti quegli investimenti sulla magica frontiera dell’innovazione – dal rendimento incerto e assai differito nel tempo – non li fanno né le cooperative di tassisti né le piccole e medie imprese di calzature. La qualità delle infrastrutture tecnologiche, a sua volta, incide pesantemente sui costi e sulla stessa specializzazione produttiva dell’apparato industriale. Non per nulla le chiamano autostrade informatiche.
Questo dovrebbe essere dunque il tema al centro del dibattito, quando si discute di autostrade dell’informazione e quando si discute di autostrade e basta. Noi però viviamo in un paese meraviglioso. E al centro del dibattito, almeno sui maggiori quotidiani, non si trovano né considerazioni di sicurezza nazionale né analisi circa il ruolo svolto dalla Telecom – persino dalla Telecom di Marco Tronchetti Provera – nella filiera dell’innovazione e della ricerca. Il parere di tanti illustri commentatori è che occorre rispettare le regole di una moderna economia di mercato. Come se in Italia qualcuno l’avesse mai vista, una moderna economia di mercato.
Vivendo in un paese meraviglioso, in questi giorni non possiamo non rivolgere un pensiero commosso ai pm della procura di Milano. Già alle prese con il caso Abu Omar, in cui sono coinvolti diversi agenti della Cia, non possiamo fare a meno di immaginarceli mentre bussano alla porta di una Telecom Italia controllata dall’AT&T, chiedendo educatamente chi abbia preso il posto di Giuliano Tavaroli, attualmente in carcere, alla guida dell’ufficio da cui passano le intercettazioni telefoniche disposte da tutte le procure d’Italia. Così, giusto per sapere a chi dovrebbero rivolgersi, qualora avessero bisogno di altri elementi.
Ai fautori del libero mercato, però, questa volta si è contrapposto un ampio fronte politico ed economico consapevole dell’importanza strategica di Telecom, preoccupato dal rischio di un declassamento del nostro paese nella divisione internazionale del lavoro, a volte persino quasi-critico nei confronti di quel capitalismo italiano – per dir così – che sulla stampa domestica a lungo ha indicato in Mr Tronchetti il vero erede di Gianni Agnelli. Un risveglio inaspettato, a tratti persino commovente, degno di un racconto di Oliver Sacks.
Se volessimo divertirci sul serio, però, dovremmo passare i prossimi mesi a ripubblicare le interviste di tutti i principali esponenti del mondo politico, industriale e finanziario, rilasciate nell’infame estate del 2005. In merito, i lettori di questo piccolo sito internet sanno già come la pensavamo allora e come continuiamo a pensarla oggi. Li invitiamo ugualmente a farsi un giretto nel nostro archivio, tanto per rinfrescarsi la memoria (in particolare qui, qui e qui).
In tanti, oggi, criticano il modo in cui Telecom fu privatizzata dal primo governo Prodi. In pochi però osano ricordare che accanto a Prodi, al ministero del Tesoro, c’erano allora Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi. E che la loro scelta fu in qualche misura obbligata, per via del patto Andreatta-Van Miert, che condizionava il nostro ingresso nell’Europa della moneta unica al rispetto di un preciso percorso di risanamento, draconiano, quale ci fu imposto dal commissario belga.
Fatto sta che quando gli Agnelli assunsero il controllo di Telecom, con una quota dello zero-virgola, in pochi si scandalizzarono. Ma quando Roberto Colaninno, con Emilio Gnutti e un gruppo di imprenditori del Nord estranei all’establishment torinese, lanciò la sua opa su Telecom – offrendo cioè lo stesso prezzo a tutti gli azionisti, in una delle poche operazioni di mercato che si siano viste in Italia – a scandalizzarsi furono in moltissimi. A cominciare dai giornali della Fiat, che scatenarono una campagna violentissima contro l’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema, colpevole di “fare il tifo” per gli ignobili speculatori. Colpevole soprattutto di non avere usato la golden share per bloccare d’autorità l’offerta di Colaninno (una mossa che oggi, sempre a proposito di Telecom, la Commissione europea ci ha diffidati dall’utilizzare, considerandola contraria ai principi di una sana economia di mercato). Le stesse accuse sarebbero tornate a echeggiare nell’estate del 2005, al tempo della scalata dell’Unipol di Giovanni Consorte alla Bnl, fatte proprie da tanta parte del centrosinistra.
Oggi però scopriamo che se è sempre sbagliato “fare il tifo”, ci mancherebbe, tuttavia per Telecom la politica e il governo hanno addirittura il dovere di preoccuparsi e di “auspicare” una soluzione che salvaguardi l’interesse nazionale, come lo salvaguarderebbe una cordata di banche e imprenditori italiani che sventasse la prospettata vendita di Telecom agli americani di AT&T e ai messicani di América Móvil. Non “fare il tifo”, si capisce, bensì “auspicare”. Non la difesa di un anacronistico concetto di italianità – cui si appellava l’innominabile ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, tra gli strali di tanti – ma la tutela dell’interesse nazionale, che è cosa ben diversa. Si capisce. E siccome l’ironia della storia non conosce limiti e non riconosce frontiere, pare che adesso tutti questi ardenti difensori della patria abbiano pensato di rivolgersi proprio a lui – lo avete capito da soli, ma noi ve lo diciamo lo stesso – Roberto Colaninno. Ci sarebbe da buttarsi per terra dalle risate, a leggere tutti i deferenti retroscena dei nostri maggiori quotidiani – gli stessi che passarono un paio d’anni a dargli del farabutto – sulle esitazioni del nostro salvatore. E forse questa sarebbe anche l’unica risposta che si meriterebbero: grasse risate. Noi però speriamo che Colaninno accetti la sfida, invece, e che lo faccia nel modo più limpido e più rispettoso delle regole di mercato e dei diritti degli azionisti – a cominciare dagli azionisti di minoranza, che dalla vendita di Olimpia agli americo-messicani non vedrebbero un centesimo, come al solito – con una nuova offerta pubblica di acquisto sui titoli Telecom. E proprio l’andamento del titolo, in questi giorni, sembrerebbe dire che qualcuno ci stia già pensando. E’ anzi probabile che ci stiano pensando tutti, americani e messicani compresi, in vista della possibile resa dei conti sul mercato. Una resa dei conti con soldi veri e ad armi pari, nell’interesse di tutti gli azionisti, per una volta. Non sapremmo immaginare un finale migliore.