Il sepolcro dell’identità

Sabato mattina, tirandosi dietro il fratellino più piccolo, mia figlia strillava: “Papà è femmina! Papà è femmina!”. Gioco che ha imparato a scuola , in prima elementare, come gridare “cacca molle!” all’indirizzo di chi è più lento nello svolgere un esercizio.
“Embè? Anche tu sei femmina”, ho risposto io. Stupita, mia figlia s’è fermata, ci ha pensato su per un momento, poi ha esclamato trionfante: “Ma tu sei maschio!”, e ha ripreso a strillare. Allora io ho continuato: “Ma se tu dici che sono maschio, allora ammetti che non sono femmina”, e benché sia riuscito per qualche secondo a farle temere che le avessi rovinato il gioco, non c’è voluto molto perché provasse a scrollarsi di dosso il mio sofisma: “Ma tu sei maschio, però sembri femmina!”. Io non mi sono dato per vinto, dopotutto lei ha solo sei anni, e così le ho obiettato: “Ma se tu dici che sembro femmina, vuol dire che sai bene che non lo sono. Vedi che ammetti da sola che non sono femmina?”. Ora mia figlia avrebbe dovuto trovare qualcos’altro ancora, per continuare: che per esempio sono mezzo uomo e mezzo femmina. Ma se l’avesse fatto, io l’avrei buttata in teologia. Abusivamente, provocatoriamente, trascurando un paio di millenni di riflessione cristologica, ma l’avrei buttata in teologia.
Lo faccio qua. A sei anni un sofisma può bastare, a sedici no. Matteo si è suicidato. I compagni di scuola lo prendevano in giro, insinuando che fosse omosessuale. E se Matteo avesse provato a respingerli rispondendo come ho risposto io, lo avrebbero preso in giro ancora di più, temo. Eppure quelle domande servono a qualcosa. Se mia figlia, infatti, s’è dovuta arrendere (tirandosi dietro il fratellino più piccolo, in queste cose perfetto gregario) è perché non domina ancora il punto che consente la presa in giro. Ma è dai tempi di Platone che si cerca di dominarlo, in verità. Che cosa sono questi dei che cambiano forma di continuo, e di cui parlano i poeti? – si chiedeva infatti indignato Platone, nella Repubblica. Gli dei non possono non essere sempre buoni, sempre saggi, sempre giusti. Eguali a se stessi. Così, in generale, si costruiscono le identità, quelle vere: salde, fisse e ben riconoscibili. E chi non si ritrova in esse, e i poeti che inventano storie piene di esseri mostruosi, proteiformi e metamorfici, a volte uomini a volte dei, a volte dei a volte animali, i poeti che trasgrediscono le regole dell’essere vero, siano respinti fuori dalle città, dalle palestre, dai tribunali. Fuori dalla scuola, anche. Forse di notte, al sicuro sotto le coperte, posso far provare a mia figlia il brivido di queste storie mostruose, dolci e strazianti, tenere e terribili, ma di giorno i maschi siano inequivocabilmente maschi e le femmine inequivocabilmente femmine. Identità sessuali, identità personali, identità psicologiche: tutto deve combaciare.
Ora, può darsi che avesse ragione Nietzsche, e che il cristianesimo non sia altro che platonismo per il popolo. Ma può darsi anche di no. Può darsi che Nietzsche avesse ragione sul cristianesimo, ma che non l’avesse su Gesù (per il quale peraltro nutriva una difficile ammirazione). Gesù vero uomo e vero Dio, insegna la fede. Ma cosa vogliono dire queste parole? Com’è possibile riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, la seconda persona della trinità, se ha ragione Platone, se ogni cosa è quel che è e non un’altra cosa?
Gesù è morto. I Vangeli raccontano che il suo corpo fu preso da Giuseppe di Arimatea, che lo depose in un sepolcro scavato nella roccia e chiuso da una gran pietra. Il giorno seguente, Pilato mandò suoi uomini a vigilare. Passato il sabato, Maria di Magdala e Maria di Giacomo andarono a visitare il sepolcro, di buon mattino, ma un angelo disse loro che Gesù il crocifisso non era lì, dove essi lo avevano deposto. Era risuscitato dai morti. Quel che è rivelativo, nella testimonianza evangelica, non sono i particolari: se vi fu o non vi fu un terremoto, se gli angeli erano due o soltanto uno (ma erano poi angeli, o solo giovinotti vestiti di candide vesti?), e se giunsero al sepolcro prima le donne o prima Giovanni, ma il fatto che in tutti e quattro i racconti, i discepoli non si raccapezzino affatto. E non si raccapezzano neanche dopo, quando Gesù appare. Nelle apparizioni, tutto è sconcertante e ambiguo, e Gesù non viene mai riconosciuto con immediatezza: non è questione, dunque, di ritrovare, sulla base di una qualche regola di identificazione, nel Gesù risorto il Gesù di Nazaret. Nessuna identità, fisica o logica o psicologica, consente il riconoscimento.
Questo dunque può insegnare la resurrezione anche ai non credenti: in un significato minimale, laico – in un significato, cioè, che precede l’iniziativa della grazia con la quale il Risorto si rivela ai suoi discepoli (e anche lì: sulla base di una memoria, ma trasgredendo nella fede le sue condizioni) – risorgere vuol dire che quel che si cerca non è là dove si credeva che fosse, o dove si vorrebbe ridurre qualcosa ad essere. Che non è nel sepolcro delle identità che noi veramente siamo, perché non vi è luogo più identitario di un sepolcro.
I funerali di Matteo sono stati celebrati nel giorno del sabato santo, la sua passione si è conclusa nel giorno del sabato santo. Ed è in sua memoria, e in attesa di ritrovare e accogliere anche lui, che dobbiamo chiedere quanto ancora bisognerà attendere per togliere le pietre da quei sepolcri in cui a volte, con la leggerezza incosciente e feroce del branco, o con la miope e ideologica cecità della dottrina, si vogliono costringere le vite delle persone.
Io, poi, immagino che la mattina della domenica, quando le donne giunsero al sepolcro, quando vi giunse col cuore in gola il giovane amato da Gesù, e il vecchio Pietro con lacrime ancora amare a rigargli il volto, immagino che vi fosse intorno un’aria limpida e leggera, un po’ di vento tra gli alberi, un piccolo sbuffo di polvere sul terreno, tra rami secchi e lucertole pigre, e una pace mai sperimentata prima, e una incalcolabile attesa di libertà.