A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione”. Così si esprime, al punto 2358, il Catechismo della Chiesa cattolica a proposito del “numero non trascurabile di uomini e donne [che] presenta tendenze omosessuali”.
Nella cultura e nel magistero cattolico c’è, evidentemente, la capacità di distinguere tra un giudizio etico fondato sulla Tradizione (poche righe prima del passaggio sopra citato viene affermato che le relazioni omosessuali sono “gravi depravazioni” e atti “intrinsecamente disordinati”) e una prassi, diciamo così, politica, sulla quale fondare la convivenza civile. Esaminando con attenzione le parole ci si accorge che non solo il Catechismo dice che nei confronti delle persone omosessuali va evitata qualunque discriminazione, ma più radicalmente afferma che tale disciminazione, laddove avvenisse, sarebbe ingiusta: contraria cioè alla giustizia che prescrive diritti e dignità inviolabili per ciascuna persona.
Monsignor Bagnasco, in settimana, è stato da più parti accusato di omofobia e “razzismo” per parole certamente infelici sul piano comunicativo e discutibili quanto al loro contenuto fondamentale (“se viene a cadere il criterio antropologico dell’etica che riguarda la natura umana è difficile dire ‘no’”), ma prive di qualsiasi riferimento all’omosessualità.
La famosa (per molti famigerata) nota pastorale della Cei sui Dico conteneva un’apertura alla legittimità della regolazione giuridica delle convivenze (auspicando tuttavia una sua realizzazione interna alla sfera del diritto privato) e, ancora una volta, nessuna espressione identificabile come omofoba.
Nonostante tutto ciò, la sensazione espressa da molti commentatori con i toni più vari è che in Italia si respiri un inquietante clima omofobo e che la Chiesa cattolica ne sia la maggiore responsabile. Il problema è che le parole, a volte, sono pietre: possono diventare insulto diretto e minaccia fisica (come le scritte a spray sulle vetrine della libreria Babele di Milano, firmate a croci celtiche e svastiche) o, addirittura, fonte di turbamento tale da indurre a gesti estremi, come nella terribile e tristissima vicenda del ragazzo torinese buttatosi dalla finestra perché fatto indirizzo, da parte dei compagni di scuola, dell’accusa di essere gay e di assomigliare a Jonathan del Grande Fratello.
Di chi è la colpa di tutto ciò? La Chiesa ha qualche responsabilità in merito? Io so che c’è, nelle parole e nei pensieri di cui il cattolicesimo è fatto, lo spazio per essere assolutamente e risolutamente dalla parte di chi è vittima: nessun “marchio di ingiusta discriminazione” può lasciare tranquilla una coscienza credente. Che la discriminazione avvenga per motivi razziali o culturali o di orientamento sessuale non dovrebbe avere importanza. Qualche parola chiara in proposito (più chiara di “concezione corretta autotrascendente della persona umana”, ad esempio) dovrebbe e potrebbe essere detta da chi, nella Chiesa, ha maggiore visibilità e responsabilità. Bene han fatto quei politici cattolici che hanno espresso solidarietà a Imma Battaglia, la storica leader del movimento gay-lesbo-trans pesantemente insultata e minacciata dalle scritte milanesi. Se anche Imma Battaglia, al netto della comprensibile tensione del momento, mostrasse un po’ di equilibrio ed evitasse di definire gli insulti vergati a spray contro di lei come “parole d’ordine che riprendono alla lettera le esternazioni di monsignor Bagnasco”, di sicuro il dibattito, la Chiesa e tutti noi ne guadagneremmo.