Con “Suite XVI” gli Stranglers festeggiano la sedicesima fatica in studio, giocano, more solito, con i doppi sensi goliardici (la pronuncia richiama “Sweet Sixteen” – e, sì, è quello che pensate) e confermano il buon momento inaugurato con il precedente “Norfolk Coast”. Anzi, laddove quest’ultimo lavoro si presentava più strutturato e “pensato”, il nuovo perde qualcosa in costruzione ma guadagna in dinamicità e immediatezza. I puristi avranno gioco facile nel sostenere che non si tratta di un capolavoro e che la band rimastica i suoi temi: il punto, tuttavia, sta proprio qui – non sono mai stati davvero totalmente concettuali, gli Strangolatori, nemmeno nei loro album “concept” con un tema e una storia vera e propria (“TheMenInBlack” o “La Folie”, ad esempio).
Emersi in contemporanea e grazie alla prima ondata punk, non vi appartengono in senso filosofico o strettamente musicale (e anche dal punto di vista anagrafico, come band, sono leggermente antecedenti). Caratterizzati da un pesante umorismo in black – così come black è la loro iconografia, a cominciare dall’abbigliamento – hanno sempre fatto scuola a sé, con un sound che si ferma un attimo prima della soglia di raffinatezza, che guarda all’indietro senza nostalgie, pastoso e di sostanza ma non grezzo. “Suite XVI” (09/06) ha il piglio deciso degli esordi, corretto dalla maturità dell’esperienza: tornati alla formazione a quattro dopo l’uscita del cantante Paul Roberts (l’onere è passato al chitarrista Baz Warne supportato da Monsieur Jean-Jacques Burnel, che rimane titolare del basso con i vecchi complici Jet Black e Dave Greenfield alla batteria e alle tastiere ), comunque orfani di quel taglio più “gotico” ispirato ai tempi dal “traditore” Hugh Cornwell, ritornano sul luogo del delitto senza compiacimenti autocelebrativi o sospette operazioni nostalgia. “Sweet XVI” sembra suonato e inciso in diretta, una sorta di jam tra vecchi amici e “buona la prima”, con i pregi e anche difetti del caso. Ai due estremi, il coinvolgimento immediato e il rischio di scivolare nella “canzoncina”. Nulla in quest’album è datatabile 1976, anche se spira una certa aria familiare; così come i momenti più vicini alla produzione del gruppo nel decennio 1980-90 sono con robustezza contraddetti dai barocchismi delle tastiere o dal gusto acido delle chitarre. La lunga introduzione è affidata al terzetto composto da “Unbroken”, “Spectre Of Love”, “She’s Slipping Away”, cui non è possibile non incollare l’aggettivo “adrenalinico”. Segue l’anomala (qui) “Summat Outanowt”, aggressiva e cadenzata. Ma a differenza delle prime tre, qui a condurre è il basso di J.J. e non le tastiere di Dave Greenfield. “Anything Can Happen” è il primo momento di pausa, un passaggio senza infamia e senza lode. “See Me Coming” riparte pedal to the metal sfiorando il deragliamento barocco. “Bless You”, con la sua atmosfera tra “Carousel” di Siouxsie And The Banshess e “Carnation” dei Jam (guarda caso, tutti di quella prima ondata targata Uk), è il classico lento che si può solo detestare con ferocia o amare alla follia. “Soldier’s Diary” riparte dall’inizio: gli Strangolatori si ripetono ma con convinzione e chiudono in meno di 2’:20”. “Barbara (Shangri-La)”, al contrario, necessiterebbe di concisione e di non richiamare, in alcuni passaggi, i Duran Duran (!) di “Rio”. “I Hate You” cambia atmosfera, la band sembra impegnata nella propria versione di “Rawhide”. Chiusura con “Relentless”, sinuosa e avvolgente.
Ai costi attuali di dettaglio, la durata complessiva appena superiore ai quaranta minuti potrebbe far storcere il naso. D’altra parte, l’ascolto è piacevole, il ritmo incalza dall’inizio alla fine e divertirsi è lecito e raccomandato. Salvo forse indossare i guanti, si può chiedere di più a un vecchio strangolatore?