Quando i partiti discutono di legge elettorale solitamente diventano noiosi, si addentrano nei tecnicismi e allontanano gli elettori. Tuttavia la legge elettorale non è un dato tecnico, ma la grammatica di una democrazia. Il modo in cui i partiti la maneggiano ne rivela la visione del paese.
Dall’inizio degli anni Novanta il discorso sulla legge elettorale, con il passaggio al maggioritario e la ricorrente evocazione del suo “spirito”, ha fornito gran parte del suo lessico alla cosiddetta “Seconda Repubblica”. E’ stato un dibattito necessario, ma a volte anche il pretesto per trasferire sul terreno procedurale problemi di sostanza politica che non si sapevano risolvere.
Dopo la breve crisi di governo del febbraio scorso si è stabilito, con il consenso di tutti, che non si può tornare a votare senza cambiare la legge elettorale. L’attuale legge sarebbe segnata infatti da due anomalie: il premio di maggioranza al Senato – attribuito su base regionale – che metterebbe a rischio la governabilità, e le lunghe liste bloccate che espropriano il potere di scelta dei cittadini. Sono argomenti molto fragili.
E’ vero che le liste bloccate sono state compilate in modo criticabile, al chiuso di pochissime stanze, ma non è che con la legge precedente il potere di scelta dei cittadini fosse molto maggiore. Sul premio di maggioranza poi si rischiano veri equivoci: se al Senato, come alla Camera, ci fosse stato un premio nazionale se lo sarebbe aggiudicato la Casa delle Libertà, che lì ha sopravanzato l’Unione di oltre duecentomila voti.
Che sarebbe successo se una legge più “coerente” avesse prodotto un risultato simile? Maggioranza di sinistra alla Camera e di destra al Senato? Sarebbe stato inevitabile pensare a una grande coalizione, sfidando un tabù che in Italia sembra inviolabile. In entrambe le coalizioni prevalgono infatti culture politiche oppositive, si tengono unite l’una contro l’altra. E’ facile pensare allora che si sarebbe ricorsi – ancora una volta – a un governo “tecnico”, mettendo in mora il parlamento. Per fortuna le cose sono andate diversamente.
A febbraio scorso però, dopo le momentanee dimissioni del governo seguite a un inciampo non banale, si è rapidamente scartata l’ipotesi di un allargamento della maggioranza e ci si è affrettati a dare alla crisi una soluzione troppo precaria per essere rassicurante. La percezione diffusa di un male nascosto che indebolisce l’assetto democratico permane, ma la cura è stata rinviata a un’auspicata nuova legge elettorale.
Cos’è questo male che ha tolto alla politica il suo “primato”, quel carattere che dovrebbe consentire ai partiti di costruire con tenacia le maggioranze necessarie ad affrontare le sfide per come si presentano? Che dovrebbe dar loro la libertà di unirsi quando è necessario, di superare le crisi tenendo a dovuta distanza i poteri estranei al meccanismo democratico? Da cosa origina il panico che impedisce a coalizioni che hanno avuto 19 milioni di voti di sfidare le impuntature di partiti minuscoli o di singoli dissidenti, in nome di obiettivi che la stragrande maggioranza degli italiani condivide?
Se dovessimo rispondere con una sola frase dovremmo dire: proprio lo “spirito del maggioritario”, quell’inclinazione propagandistica che ha accompagnato lo sviluppo della democrazia dell’alternanza negli anni Novanta. Quello spirito, incarnato dal premio di maggioranza, per cui il paese si spacca in due metà perfettamente uguali e non comunicanti, all’interno di ciascuna delle quali chiunque è in grado di inibire i partiti maggiori e in cui i governanti sono praticamente eletti dal popolo, ma allo stesso tempo sono alla mercé di coalizioni ingovernabili.
Non penso che questo dato assai corposo si possa cambiare facilmente, ma non si può escludere che un rimedio, anche parziale, possa essere individuato accostandosi alla legge elettorale con un approccio del tutto nuovo. Bisogna avere il coraggio di una rottura culturale, di mettere al centro della fase nuova un diverso alfabeto istituzionale.
Finché quella ricerca sarà motivata principalmente dall’assillo di evitare il referendum, o dall’esigenza di dare ossigeno al governo, sarà destinata a fallire. Il referendum elettorale, che in un contesto normale non raggiungerebbe il quorum, dinanzi alla possibile paralisi dell’attuale bipolarismo può trasformarsi, come nel ’93, in una possente spallata antipartitica. L’esito referendario in tal caso non sarebbe un “utile stimolo”, bensì il disegno di un grossolano presidenzialismo che le Camere dovrebbe recepire “sotto dettatura”. Se si vuole riportare il referendum alla sua giusta dimensione e mettere la legislatura su un sentiero più costruttivo, occorre allargare l’orizzonte del confronto, prendendosi il tempo necessario e la libertà di esplorare scenari nuovi.
L’obiettivo più importante su cui provare a far convergere gli sforzi di tutte le forze politiche è quello di dare all’Italia partiti politici adeguati, capaci di costruire maggioranze solide prima di rivendicare una protesi maggioritaria. Partiti che, dovendo prendere i voti per sé e non contro gli altri, sappiano fare sintesi di diversi interessi e non rimanerne ostaggio. Partiti che si sappiano sfidare nell’alternanza, ma che si riconoscano a vicenda e possano collaborare senza complessi quando serve. Sarebbe l’occasione di aprire una stagione della Repubblica che ci riavvicini all’Europa, una stagione a cui non dare nomi in contrapposizione al passato né in chiave nostalgica.
Il processo costituente del Partito democratico si situa pienamente dentro questa vicenda. Dalle sue scelte ne dipenderanno gli esiti e il successo. Non c’è bisogno di avviare un’impresa intellettuale e organizzativa di tale impegno, infatti, per poi dare vita a un modello elettorale come quello del “Sindaco d’Italia”, dove i partiti sono partiti virtuali.
Oggi, in fondo, si presenta alle forze del centro-sinistra una situazione simile a quella del biennio ’91-92, e visto che è aperto il dibattito su Craxi, bisognerebbe fare chiarezza tra chi rimpiange il Craxi dei primi anni, quello della “Grande riforma” presidenzialista, e chi invece intende riesaminare un’altra pagina, non meno interessante. A cavallo delle elezioni politiche del ’92, che coincidevano anche allora con il rinnovo del Quirinale, il Partito socialista – messo alle strette dalla nascita del Pds, dalla sfida di Maastricht e dal primo referendum elettorale – propose un disegno di respiro costituente, un’intesa con il Pds (e una tregua con la sinistra dc) su tre parole d’ordine: Unità socialista, “governissimo” per risanare il bilancio, legge elettorale alla tedesca. Non ci interessa oggi chiederci se si era allora già fuori tempo massimo o se, esplorando quello scenario, Bettino Craxi ne sarebbe ancora stato un possibile protagonista. Ciò che bisogna ricordare è che le forze che oggi si accingono a formare il Partito democratico diedero allora una risposta completamente negativa, ed è legittimo nutrire rimpianti.
Oggi come allora è aperta una fase costituente per tutto il sistema politico, non solo per i “Democratici”. E se è vero che i passaggi di civiltà non si realizzano cambiando i ritratti e le citazioni di rito, sarebbe bello che il Pd facesse un’eccezione per Costantino Mortati e riprendesse in mano i suoi “Studi sul potere costituente”. Sarebbe l’occasione per dare un fondamento solido a questioni che da troppo tempo vengono maneggiate in modo ambivalente. Le primarie, il ruolo dei partiti, il loro finanziamento: c’era nel suo pensiero – e nell’articolo 49 della Costituzione da lui in gran parte ispirato – una grande modernità nel delineare i partiti politici come soggetti che attengono alla sfera pubblica, necessari al funzionamento di democrazie evolute e non associazioni “pregiuridiche… fattore di turbamento del libero giuoco delle forze individuali”, come li dipingeva un’ideologia ottocentesca che oggi proprio non serve più. Ripartire da lì darebbe sostanza a quell’aggettivo – “democratico” – che si è deciso di dare al nuovo partito che nascerà dall’Ulivo.