La mattina del 16 aprile, Cho Seung-Hui, ventitré anni, ha ucciso trentadue studenti nel campus universitario Virginia Tech di Blacksburg. Dapprima ha aperto il fuoco su due studenti nel dormitorio della West Ambler Johnston Hall, poi è rientrato nel proprio alloggio, ha scritto una lunga lettera e si è filmato in una terribile sequenza video, armato delle pistole con cui avrebbe proseguito la strage. Quindi ha lasciato la sua camera, ha spedito il video alla Nbc insieme a fotografie e altro materiale audiovisivo, dal contenuto altrettanto violento, realizzato nei giorni precedenti. Infine, Cho ha raggiunto le aule della Norris Hall, in un’altra ala del campus, e lì ha aperto il fuoco sugli studenti, prima di spararsi un ultimo colpo in pieno volto.
L’America è tornata a interrogarsi sulle cause di stragi così efferate. Sul perché siano le scuole e le università il teatro preferito per simili eccidi di massa: valenti psicanalisti hanno ad esempio spiegato che in realtà Cho voleva uccidere il pensiero, ma è più probabile che volesse semplicemente fare fuori i suoi coetanei. Sulla facilità con la quale negli Stati Uniti è possibile procurarsi legalmente un’arma, acquistandola magari on line e vedendosela recapitata per posta: non ci vuole Michael Moore per capire che meno armi circolano, meno morti ammazzati ci sono. Sull’inefficienza della polizia, che ha consentito libertà di spostamento a Cho dopo la prima sparatoria alla Johnston Hall: come ci difenderemo dai terroristi? – è allora il pensiero e l’angoscia sottintesa. Sul sogno americano e le nuove sfide del multiculturalismo: Cho avrebbe sparato per l’impossibilità rancorosa di realizzare quel sogno, e il multiculturalismo sarebbe in crisi da tempo. Sull’incapacità di leggere i molti segnali premonitori: Cho faceva uso di farmaci antidepressivi, Cho aveva molestato due studentesse ed era stato ricoverato in una clinica psichiatrica, Cho appariva taciturno e ombroso e non aveva legato con nessuno, Cho aveva fatto leggere ad alcuni compagni di corso dei macabri testi teatrali grondanti sangue. Sul ruolo dei mezzi di comunicazione, infine, esaltato dal testamento multimediale di Cho, immediatamente diffuso dalle reti televisive e disponibile su You Tube: sotto accusa non è solo l’effetto imitativo delle immagini – Cho con giubbino militare beige e cappello di baseball con la visiera rovesciata, Cho che brandisce un martello o stringe un cacciavite, Cho che punta la pistola verso l’obiettivo o sulla propria tempia, Cho che maledice il mondo e accusa tutti gli altri di essere i veri responsabili del sangue versato – sotto accusa è pure la capacità di legittimazione che nell’epoca del mondo risolto in immagini avrebbe anche solo il fatto di potersi riprendere, trasformandosi per ciò stesso in protagonisti delle proprie orrende imprese.
Qualunque spiegazione è tuttavia insufficiente, si dice, rispetto all’enormità del delitto. E il filosofo americano Lee Harris, sentito dal Foglio, aggiunge che è colpa del “razionalismo malato” dell’Occidente se le nostre spiegazioni riescono insufficienti. È come se la nostra civiltà compisse tutta insieme una sorta di gigantesco esorcismo: se infatti riuscissimo a renderci davvero comprensibile come sia stato possibile a Cho sparare a sangue freddo agli studenti del Viginia Tech, ammazzandone a decine, “potremmo dire di essere come lui, anche noi un giorno metteremo in fila altri esseri umani per giustiziarli”: dunque meglio distogliere lo sguardo dall’abisso del male, meglio relegare nell’incomprensibile la follia omicida di Cho.
Io invece non me la prenderei con il razionalismo malato, ma direttamente con la metafisica. Con una cattiva metafisica, però. Mi spiego: provate a descrivere non una persona ma anche solo un oggetto, uno qualunque. Se assumete che quell’oggetto è una cosa assolutamente individua, qualunque descrizione riuscirà troppo larga: per quanto precisa e circostanziata, sarà infatti costituita da termini generali, e nessun catalogo di termini generali darà mai la fisionomia precisa ed unica, perfettamente individuata, di quella cosa. Ora, benché abbia forti dubbi su quell’assunzione, non posso pretendere con un articolo di cambiare la metafisica a Lee Harris o ad alcun altro, ma questo almeno posso: osservare che, se è vero che qualunque descrizione non calzerà mai veramente a pennello, ciò non vuol dire affatto che sarà del tutto inutile. Lo stesso dicasi delle spiegazioni che vengono avanzate per rendersi comprensibili quanto è potuto accadere a Blacksburg: ce ne sono di buone e di meno buone (e anche di francamente imbarazzanti). D’altronde Harris vorrebbe non che si trovasse la giusta spiegazione, ma che si accettasse di pensare virilmente, senza gli esorcismi della ragione moderna (incivilita sì, ma proprio per questo, a suo dire, indebolita), che il male non ha senso, e che tuttavia ci riguarda, ci tocca da vicino. Dopodiché Harris chiosa: siccome non ha senso, il male non può essere spiegato; ma siccome tuttavia ci riguarda, abbiamo bisogno della religione per darne ragione (o forse, se non per darne ragione, almeno per salvarci).
Un tempo si sarebbe detto che questo è un ragionare obscurum per obscurius, un argomento in cui si prova cioè a spiegare una cosa oscura e tenebrosa, come la mente ottenebrata di Cho, con una ancora più oscura: con il Maligno, ad esempio, o il peccato originale, di stretta competenza della religione.
Ma poi: chi l’ha detto che la strage del Virginia Tech è del tutto incomprensibile? In realtà, vi sono due modi, notava Wittgenstein, per rendersi comprensibile qualcosa: uno è provare a parafrasarlo, e grosso modo le spiegazioni troppo larghe di prima servono a questo. Un altro, all’opposto, consiste nel comprendere che la cosa andava detta o fatta proprio così com’è stata detta o fatta: in quell’unica maniera. È il genere di comprensione che di solito riserviamo alle opere d’arte, per le quali spiegazioni e parafrasi non paiono mai all’altezza. Ora, io non so quanto di individuale ci sia nelle vite di ciascuno di noi o in quella di Cho, ho espresso sopra i miei dubbi, ma so che se vi è un luogo in cui l’individuale, pur restando individuale e anzi proprio perché resta tale, trova la sua massima comprensibilità, questo luogo è l’arte. Ebbene, sul sito letterario “Il primo amore”, lo scrittore Tiziano Scarpa ha tradotto il testamento di Cho: ha messo in versi le sue martellanti parole e le ha portate così alla loro perfetta evidenza, terribile e agghiacciante. Non le ha rese affatto più vicine alla nostra comune umanità, perché il bello, diceva Rilke, non è che l’inizio del tremendo. Ma ha mostrato che, al contrario di quel che forse pensa Harris, proprio il loro senso, ahimè, ci riguarda.