“La quotazione in borsa della Fincantieri, anche di minoranza, appare in prospettiva… una stupidaggine dannosa tanto a chi la effettua (il governo e lo stato) quanto a chi la subisce (i lavoratori)”. Il giudizio, senza appello, è di Duccio Valori, ex direttore centrale dell’Iri (il Manifesto, 11 luglio). La contrapposizione con la proposta del top management del gruppo non poteva essere più netta. Il futuro di Fincantieri è un tema che merita però molta, molta attenzione.
Il gruppo Fincantieri e l’ipotesi di collocamento in borsa. La cantieristica italiana ha una tradizione che viene fatta risalire a Camillo Benso di Cavour, il quale nella seconda metà dell’Ottocento, in presenza di una flotta nazionale costituita da navi in legno e a vela, per primo aveva auspicato la necessità di costruire navi in ferro e a vapore.
Nel 1937 l’Iri, attraverso la finanziaria Fincantieri, assume il controllo di tutti i grandi gruppi cantieristici. Nel 1959 Fincantieri viene ricostituita nella forma di spa; nel 1984 si trasforma da finanziaria in società operativa e assume la denominazione di Fincantieri-Cantieri navali italiani, spa.
Il gruppo – oggi controllato da Fintecna, finanziaria del ministero dell’Economia – è uno dei più importanti complessi cantieristici navali d’Europa: strutturato in due divisioni, Costruzioni mercantili e Costruzioni militari, controlla da solo il 45% della produzione mondiale delle navi da crociera, il 32% dei traghetti, ed estende il suo mercato dalle navi militari ai megayacht, dalle riparazioni alla sistemistica.
Fincantieri in Italia occupa circa 9.400 persone (circa 20.000 considerando anche l’indotto) che operano in otto cantieri (Monfalcone, Marghera, Sestri Ponente, Ancona, Castellammare di Stabia e Palermo fanno capo alla direzione generale navi mercantili, mentre Riva Trigoso e Muggiano rispondono alla direzione navi militari). Il gruppo dispone di centri di progettazione, di un centro di ricerca e sperimentazione nel campo dell’architettura e dell’ingegneria navale (il Cetena, con sede a Genova) e unità produttive dedicate alla fabbricazione di componenti meccaniche (in particolare la Isotta Fraschini Motori di Bari, che costruisce motori diesel). Fincantieri assieme a Finmeccanica ha dato vita alla società Orizzonte sistemi navali, che progetta e costruisce corvette, fregate e unità portaerei.
Fincantieri fino al 2002 ha attraversato momenti difficili (si veda il libro bianco “Il caso Fincantieri. Capire oggi cosa accade domani”, pubblicato da Fiom-Cgil il 16 maggio 2007). Oggi è un’impresa sana, sia pure con significative criticità, in grado di creare ricchezza: ha chiuso il 2006 con +14% di produzione, 2,4 miliardi di fatturato, commesse per 10,3 miliardi (di cui circa il 60% destinate all’estero). L’azienda produce utili da sei anni e grazie a ciò Fintecna tra il 2002 e il 2005 ha versato all’azionista dividendi per 2,8 miliardi.
Questi dati così positivi si debbono innanzitutto all’ostinazione delle città che ospitano i cantieri, dei sindacati e dei lavoratori che si sono duramente opposti alle conclusioni contenute nel “Libro Verde” sulle partecipazioni statali del ministro Piero Barucci, che giudicava il settore maturo (soprattutto a causa della concorrenza asiatica) e comunque da dismettere. Il libro bianco della Fiom, “Il caso Fincantieri”, ricostruisce la vicenda nei termini seguenti: “Questa mobilitazione produsse un risultato. Il governo lasciò perdere e la Fincantieri restò al riparo dall’ondata di privatizzazioni che nel giro di pochi anni ha distrutto una parte del sistema industriale italiano”. E’ evidente che, a partire dal 2002, i meriti del rilancio del gruppo siano da attribuire in primo luogo al management dell’azienda.
Nel 2005 l’amministratore delegato di Fincantieri, Giuseppe Bono, propone la collocazione in borsa dell’azienda, pur prevedendo di lasciare allo stato la quota di controllo. Il ministro Giulio Tremonti – forse per timore di ripercussioni elettorali – rinvia la decisione. Il governo di centrosinistra insediato nel maggio 2006 si assume la responsabilità di decidere: il piano industriale di Fincantieri prevede investimenti per circa 800 milioni di euro; circa il 70-80% della somma può essere reperita collocando in borsa il 49% del capitale. Il Dpef per gli anni 2008-2011 prevede così che “è prefigurabile nei prossimi mesi il collocamento in borsa di una quota del capitale… società nella quale il controllo pubblico non risulterà comunque inferiore al 51% del capitale…”.
Le critiche della Fiom e l’opposizione al collocamento in borsa. I progetti dell’esecutivo e del top management trovano l’opposizione della Fiom Cgil. Il sindacato contesta sia numerosi punti del piano industriale che la collocazione in borsa. Rinviamo al libro bianco per la critica puntuale ai singoli punti del piano e ci limitiamo alle contestazioni che appaiono maggiormente significative.
Il punto di maggiore discordanza sul piano industriale sembra riguardare gli investimenti in cantieri all’estero, a cui dovrebbero essere destinati 250 milioni di euro. Fincantieri vuole infatti investire negli Stati Uniti, perché questa è la condizione per partecipare alle gare per forniture militari; nei Carabi e nel Baltico per una rete per il refitting (ovvero attività per allungare la vita delle navi). Ma il progetto osteggiato dalla Fiom riguarda l’acquisizione di un cantiere low cost in Ucraina, che da solo è grande una volta e mezza tutti i cantieri italiani messi insieme. Il top management dell’azienda sostiene che l’acquisizione è da considerarsi strategica, poiché consentirebbe il raddoppio della produzione, e quindi la delocalizzazione delle produzioni a minore intensità tecnologica (in particolare gli scafi). Ne deriverebbero un aumento dei profitti e quindi della redditività dell’impresa. La Fiom respinge la proposta sostenendo che: a) la riduzione dei costi non è così significativa da consentire, in ogni caso, la competizione con i paesi asiatici; b) le perdite occupazionali in Italia sarebbero gravi; c) non vi è certezza che l’azienda sia in grado di reggere una tale espansione in termini di risorse manageriali e costi.
D’altra parte, se il top management di Fincantieri sostiene che l’azienda necessita di investimenti per circa 800 milioni, la Fiom sostiene che tali fondi possono essere raccolti facendo ricorso a 173 milioni di liquidità del gruppo; all’autofinanziamento (50 – 60 milioni all’anno per 5 anni = 250-300 milioni); agli aiuti Ue per ricerca e sviluppo; a risorse nazionali per l’innovazione; al credito d’imposta per finanziare programmi di ricerca; al cuneo fiscale. Tutte queste voci, aggiunte al possibile ingresso di investitori istituzionali e degli enti territoriali, potrebbero portare circa 550 – 600 milioni di euro. Il rimanente potrebbe essere reperito con l’indebitamento.
La Fiom sostiene inoltre che Fincantieri, pur essendo un’azienda sana, non ha i fondamentali che la possano rendere appetibile in borsa, perché la redditività è inferiore al 2% e perché, in aggiunta, il valore complessivo dell’azienda subirebbe un danno dal fatto di non essere scalabile. Questa tesi è sostenuta anche da Duccio Valori, il quale osserva che il mercato offre, per esempio, il Bund tedesco decennale con interessi al 4,5%. Se si tiene conto anche del fatto che il settore presenta significativi rischi d’impresa, sul mercato borsistico Fincantieri non appare competitiva. L’ex manager dell’Iri vede poi ulteriori pericoli: la presenza in ambito pubblico di “privatizzatori” colpevoli di non voler apprendere le lezioni provenienti dalle precedenti esperienze – Telecom Italia su tutte – che si sono risolte in una riduzione della concorrenza e del numero dei dipendenti, oltre che in un danno per gli azionisti. Inoltre, prosegue il manager, i rappresentanti dei privati nel cda potrebbero orientare decisioni in contrasto con l’interesse generale dell’azienda e del paese.
Industrie pubbliche e privatizzazioni. Le argomentazioni della Fiom sono molto serie e meritano una premessa. In questi anni taluni autoproclamati liberisti nazionali hanno condotto una dura battaglia, spesso sostenuti da importanti organi di stampa, contro le imprese pubbliche e l’intervento dello stato nell’economia. Le azioni che ne sono conseguite – ci riferiamo alle privatizzazioni indiscriminate e, come è stato scritto da Marcello Messori, senza strategia – hanno generato danni irreparabili per il nostro paese, e soprattutto per il Mezzogiorno. Sarebbe stato necessario valutare la necessità di liberalizzazioni caso per caso e all’interno di un quadro strategico. Invece è stato smantellato, con troppa rapidità, gran parte del sistema industriale del paese. Non è questa la sede per un’analisi dei processi di privatizzazione e dei loro risultati. Vorremmo però dire che se da una parte era certamente giusto liquidare l’Efim, lo stesso discorso non può essere fatto per altri settori. La retorica contro le aziende pubbliche si scontra con il dato indiscutibile che oggi il prestigio industriale dell’Italia nel mondo è in gran parte affidato a industrie di cui lo stato mantiene una quota di controllo: Eni, Finmeccanica, Enel, Fincantieri. Se poi si compie un’attenta analisi del quadro internazionale si potrà osservare che i maggiori Paesi europei si sono ben guardati dallo smantellare il sistema delle imprese e della finanza pubblica: Germania e Francia hanno assicurato l’autonomia dell’Europa grazie a un sistema industriale formato da grandi imprese ad alta tecnologia – in grado di competere a livello globale – formato da aziende pubbliche e private e da multinazionali straniere. I grandi progetti industriali e tecnologici dell’Europa sono affidati in parte predominante ad aziende pubbliche (Galileo, Arianspace, Airbus). In Germania il sistema delle Sparkasse – simili a quelle che furono le nostre Casse di Risparmio – è rimasto pubblico, con mission indirizzate all’interesse generale, e ha una funzione essenziale per finanziare il sistema delle piccole e medie imprese locali.
Fatta questa necessaria premessa, bisogna dire che le critiche della Fiom alle ipotesi di internazionalizzazione di Fincantieri, pur contenendo elementi di verità, possono essere superate. E’ inutile ricordare che tutte le grandi imprese manifatturiere oggi mantengono la propria competitività solo attraverso processi di internazionalizzazione e di delocalizzazione di parte delle produzioni. Tutto ciò non solo consente la riduzione dei costi, ma è permette anche l’acquisizione di nuove esperienze e risorse umane. La maggiore concorrente di Fincantieri, la norvegese Aker Yards, dispone di 18 cantieri: 6 in Norvegia, 3 in Finlandia, 2 in Germania, 2 in Francia, 2 in Romania, 1 in Ucraina, 1 in Brasile, 1 in Vietnam. Possiamo aggiungere altri esempi in settori diversi, senza entrare nel merito di ciascuna esperienza. La Siemens, per esempio, che è certamente una delle maggiori e più complesse aziende del mondo, nel 2006 aveva 474.900 dipendenti così suddivisi: Germania 34% (il 43% dei quali impiegati in ricerca e sviluppo), Europa 27 (di cui il 28% in R&S), Americhe 21% (16% in R&S), Asia 15% (12% in R&S), Africa e Medio Oriente 3% (1% in R&S). Il gruppo Volkswagen, sempre nel 2006, occupava circa 169 mila dipendenti in Germania e 156 mila nel mondo. Il gruppo Fiat 75.700 in Italia e 172 mila nel mondo.
E’ giusto che Fincantieri cerchi nuovi sbocchi produttivi e si muova nella direzione di una maggiore internazionalizzazione del gruppo, che oggi appare quasi interamente legato al nostro paese. E’ forse vero che i risparmi non saranno tali da consentire di competere con i cantieri asiatici, ma è altrettanto vero che, come abbiamo appena visto, il maggiore competitor di Fincantieri è un’azienda europea fortemente internazionalizzata e con una presenza marginale in Asia.
E’ invece certamente doveroso il richiamo a Fincantieri affinché fornisca in modo preciso alcune garanzie: mantenimento dei livelli occupazionali in Italia, e adeguatezza dei progetti e delle risorse umane da destinare al cantiere dell’Ucraina.
Le ipotesi alternative della Fiom per il reperimento delle risorse sono certamente motivate. Si può tuttavia sostenere che i fondi pubblici, nazionali e comunitari, destinati all’innovazione e a ricerca e sviluppo, possono aggiungersi a quelli reperiti nel mercato borsistico e quindi consentire quegli ulteriori investimenti di cui il settore ha grande necessità, soprattutto nell’auspicabile ipotesi Fincantieri voglia avviare nuove produzioni a maggiore contenuto tecnologico. A questo fine è certamente condivisibile la proposta di Fiom, che richiede un maggiore impegno dell’azienda nel settore militare. Alcuni mesi or sono da parte francese era stato ipotizzato un progetto per una grande società europea simile ad Airbus, in grado di competere nei segmenti più sofisticati della navigazione. Probabilmente questo progetto non avrà esito positivo, ma è indiscutibile che l’Europa necessita di forme di aggregazione tra industrie nazionali in grado di aggredire un settore così strategico.
Le critiche di Fiom e di Duccio Valori sono basate su dati che impongono una seria riflessione. Gli investitori, soprattutto i fondi di investimento, si muovono solo nella prospettiva di ricavi in grado di giustificare l’esborso di capitale. Ed è reale il rischio di piani industriali a breve termine, magari fortemente sollecitati da membri del cda particolarmente aggressivi, al solo fine di soddisfare gli interessi di quegli azionisti attenti in primo luogo ai “conti trimestrali”.
Resta il fatto che Fincantieri rappresenta comunque una delle ultime grandi risorse industriali per garantire la presenza del paese in un settore manifatturiero complesso ad alta tecnologia. Un settore che richiede grandi investimenti e grandi capacità a tutti i livelli.
La Fiom ha il merito indiscutibile di aver sollevato critiche che – anche se non sempre condivisibili – hanno posto all’attenzione del paese il “caso Fincantieri”. La scelta della collocazione di una parte del capitale è una scelta certamente dolorosa, ma probabilmente necessaria, innanzitutto per reperire nuove risorse. Occorre però affrontare e risolvere alcune questioni sulla governance futura del gruppo. La Fiom ha denunciato infatti la scarsa trasparenza e la frequente approssimazione delle comunicazioni ricevute. E’ chiaro però che un’impresa moderna deve basarsi su tre grandi pilastri: massima trasparenza nella gestione, nei processi di formazione delle strategie e nelle informazioni; attenzione e continua valorizzazione per il proprio capitale umano e quindi per la le risorse da destinare ai processi di innovazione; politiche ambientali. Spiace dover constatare che questa cultura di impresa non è percepibile consultando il sito internet del gruppo (a questo fine è sufficiente fare il confronto con il sito della concorrente Aker Yards o con una qualsiasi delle imprese sopra citate). Al riguardo, la quotazione in borsa imporrebbe al management comportamenti certamente più virtuosi, come dimostrano le esperienze delle migliori aziende internazionali.
Occorre poi che le garanzie offerte dall’esecutivo siano condivise anche dall’opposizione, al fine di creare da una parte un clima positivo e condiviso intorno all’azienda e dall’altra di impedire repentini cambi di direzione nell’ipotesi di mutamento della maggioranza di governo. In altre parole, sarebbe necessario che le maggiori forze politiche condividessero la volontà e l’impegno a: a) mantenere il controllo azionario in mani pubbliche; b) designare nel cda persone di provata capacità, convinte della missione industriale del gruppo e attente a recepire gli indirizzi strategici dell’azionista di maggioranza; c) valutare l’operato del management secondo criteri il più possibile fondati su responsabilità e merito.
L’esecutivo si dovrebbe altresì impegnare a far rientrare Fincantieri nelle strategie di geopolitica industriale nazionale ed europea; favorire un ampliamento dei rapporti esistenti con Finmeccanica e quindi il potenziamento di settori come quello della navigazione militare e commerciale. Considerato che sia il presidente del Consiglio che il ministro degli Esteri si sono spesso lamentati dello scarso numero di imprese nazionali da sostenere nelle sedi internazionali – sia nelle negoziazioni bilaterali sia in quelle multilaterali – crediamo che questo obiettivo sia ampiamente condiviso a livello politico. Un’ulteriore garanzia per il futuro di Fincantieri potrebbe poi derivare dall’impegno degli enti locali ad acquisire quote di capitale sociale in grado di consentire una presenza nel cda.
Infine, il tema del ruolo dei sindacati e dei lavoratori nell’impresa moderna, specie in quelle in cui l’azionista di controllo è pubblico. Stiamo parlando della cosiddetta “cogestione” e quindi della presenza dei sindacati nei cda delle aziende. La vicenda Fincantieri può rivelarsi decisiva per riaprire il dibattito su un argomento così delicato, che il sindacato e il paese devono avere la forza di affrontare.
Un’ultima nota: in questi anni l’industria manifatturiera è stata considerata in declino e destinata in gran parte a soccombere di fronte alla concorrenza asiatica. La realtà è ben diversa: l’industria manifatturiera è il maggiore motore dell’innovazione perché la concorrenza e le esigenze dei consumatori e dei clienti impongono la ricerca continua di nuovi prodotti, e dei servizi ad essi connessi, sempre più sofisticati. L’industria manifatturiera mette in moto sistemi complessi di organizzazione che richiedono lavoro, competenze, cultura di altissima qualità. Non solo capitale.