Il fatto che proprio in questi giorni i Simpson compiono vent’anni non sarebbe una ragione sufficiente per occuparsene qui se la sinistra italiana non li avesse malamente presi a modello per così tanti anni.
Quando nella primavera del 1987 la Fox iniziò a trasmettere alcune brevi strisce animate all’interno del Tracey Ullman Show, e poi, per i successivi dieci anni, episodi di mezz’ora in prima serata, i Simpson apparvero come una critica spietata e intransigente all’America repubblicana post-reaganiana. Erano la tipica famiglia media americana guardata e disegnata da un liberal della upper class: c’era Homer, il padre inebetito e incattivito dalla televisione fonte di ogni male; c’era Marge, la casalinga devota solo alla famiglia e ai bollini del supermercato; c’era Bart, il bullo di una scuola elementare senza alcun interesse al di fuori dei videogiochi; c’era l’altra figlia, Lisa, un’intelligente bambina precocemente progressista e frustrata dalla grettezza dilagante intorno a lei. Sullo sfondo, la società della televisione, stupida e cattiva. E su tutto lo sguardo di superiorità del creatore, lo sguardo dell’intellettuale che la sa lunga e che offre al mondo il modello negativo di cui ridere, ma stando in guardia. Perché, sembrava di sentirlo dire, di questo passo diventeremo davvero tutti così.
Per quella famiglia lo smaliziato spettatore liberal provava la stessa simpatia e pena che si tributa di solito alle vittime inconsapevoli di un raggiro: irretite e imbrogliate da un gigantesco complotto – la tv – ordito da major che impongono loro stili di vita facili, che li tengono nell’ignoranza per meglio poter condurre, alle loro spalle, i propri inconfessabili affari; lo stesso atteggiamento, insomma, che qui in Italia è stato per anni riservato da sedicenti intellettuali di sinistra alle persone che votavano Forza Italia e guardavano Mike Bongiorno.
L’intento pedagogico e il moralismo che stavano dietro alla parodia erano del resto appena mascherati. Come ebbe a dire Matt Groening, il suo creatore, l’obiettivo della serie era “offrire un’alternativa al pubblico, e mostrargli che c’è qualcos’altro oltre alla spazzatura mainstream che gli viene presentata come l’unica scelta”.
C’era insomma l’idea di una società divisa in due: da una parte dello schermo i bravi cittadini e gli intelligentoni, a guardare e a darsi di gomito; dall’altra, a essere guardate, compatite e derise, le tante famiglie ignoranti di cui ridere e di cui avere paura. Quanto falsamente inquietante fosse una simile rappresentazione della società e quanto fosse in realtà rassicurante e autoadulatoria appare chiaro solo oggi che – grazie al cielo – la stiamo abbandonando anche in Italia.
Questi dunque erano i Simpson vent’anni fa, e tali restarono per i successivi dieci anni. Proprio allora, alla metà degli anni Novanta, la sinistra italiana decise che i Simpson erano quello che faceva per lei. Quando sulla scena politica si affacciò Berlusconi, quei cartoni animati le sembrarono il modello ideale da adottare per denunciarne la pericolosità e per criticare una società immancabilmente in rovina: la televisione come male assoluto, i cittadini dipinti come ebeti in balìa del primo contaballe visto in tv. Ma il segreto di un successo longevo, si sa, sta nel saper cambiare per tempo. E così, proprio in quegli anni, mentre la sinistra italiana iniziava a prenderlo a modello, Matt Groening cambiò atteggiamento e i Simpson diventarono altro. Da allora, lo sguardo del loro creatore s’è fatto meno intransigente e più disincantato. La società della televisione sarà pure frivola e un po’ cretina, forse, ma non cattiva né irrimediabilmente perduta. I personaggi hanno acquistato spessore e complessità. Lo sguardo dell’autore si è fatto più incline alla partecipazione affettuosa che all’invettiva, senza per questo diventare né indulgente, né buonista, né edificante. Nella famiglia Simspon lo spettatore liberal non vede più (solo) i vicini di casa stupidi e divertenti che votano a destra, ma vede (anche) se stesso. E impara a riderne. E’ scomparso, invece, quel moralista intransigente e incarognito che aleggiava su tutto e che tutto giudicava dall’alto della sua superiorità intellettuale. E mentre i Simpson cambiavano, diventando così la serie tv più popolare del pianeta, la sinistra italiana che tentava di emularne la vecchia versione perdeva le elezioni e preferiva accentuare il proprio senso di superiorità girando in tondo attorno al proprio rancore.
Intendiamoci: nella Springfield del duemila, in cui esistono anche i sentimenti e la solidarietà, non c’è posto per la retorica buonista – no, non vedremo mai Bart aiutare una vecchietta ad attraversare la strada, né Homer commuoversi per i mali dell’Africa. I nuovi Simpson non hanno smesso di criticare ferocemente l’America repubblicana, ma hanno imparato a ridere anche dei vezzi di quella progressista; sono capaci, per dire, di prendere in giro la vocazione ecologista di Bono o la smania che ha preso Al Gore di evangelizzare il mondo al verbo democratico di internet.
Ecco, a rileggerli oggi, quegli atteggiamenti delle prime stagioni dei Simpson e quel tipo di critica appaiono così radicali da sembrare ingenui e primitivi: armi spuntate. Oggi, a vent’anni di distanza, si sono fatti più morbidi e meno inquisitori, senza per questo diventare buoni. E sarebbe ora che la sinistra imparasse a comprendere i modelli che usa: né intransigenti e radicali, né buonisti e fregnoni.
Nonostante i Simpson, la sinistra italiana ha impiegato quindici anni per accorgersi che la televisione non è il male, né chi la guarda un branco di dementi. E oggi che ha smesso di insultare gli elettori un giorno e lamentarsi il giorno dopo per non averne ottenuto il voto, non vorremmo che ne servissero altri quindici per smettere di essere edificanti e accomodanti per forza.