Al quarto congresso dei Comunisti italiani, il segretario Oliviero Diliberto ha detto: “Il Pds divenne Ds. E ora, perdendo anche la ‘s’, che sta per sinistra, termina infine un travaglio lungo e faticoso, durato sedici anni appunto, che traghetta compagni con i quali molti di noi hanno trascorso un pezzo tutt’altro che banale della propria vita oltre la sinistra. Un esito che non era scontato nel 1991”.
Diciamo subito che su una cosa Diliberto ha sicuramente ragione: sedici anni sono tanti. Il travaglio è stato davvero lungo e faticoso. E su un’altra anche ha ragione: i nomi sono importanti. Ma in questo passaggio del discorso di Diliberto le ragioni finiscono qua. E cominciano i torti. Il primo dei quali è non domandarsi: d’accordo per i sedici anni trascorsi, ma per i prossimi sedici anni (o anche meno, senza voler essere irriguardosi)? Fra sedici anni i comunisti italiani allestiranno ancora la stessa scenografia? Mi riesce difficile dare la cosa per scontata. Altro errore, più grave: non considerare che, quando prende forma un partito che sposta e ridefinisce l’equilibrio di un pezzo consistente della rappresentanza politica del paese, giudicare la collocazione della nuova formazione avendo in mano la carta politica che proprio il nuovo soggetto politico ha reso obsoleta è sbagliato. È sbagliato anche, benché sia un errore meno grave, rendere il proprio giudizio sulla base del posizionamento difficilmente decisivo di Fabio Mussi, Cesare Salvi o Gavino Angius: che un certo pezzo della sinistra dei Ds non vi abbia aderito non significa necessariamente che il Partito democratico si sia spostato al centro, o che i Ds abbiano scelto una deriva moderata: può significare anche (vorremmo dire: è ben più probabile che significhi) che c’era e c’è un’area significativa dei Ds che non era e non è interessata a una certa ridefinizione dei compiti della sinistra democratica. D’altra parte, il congresso dei comunisti italiani si è concluso con il proposito di costruire una “sinistra senza aggettivi”, nella quale dovranno potersi ritrovare componenti che nella cartografia politica italiana stanno, per quanto vicini, necessariamente uno a fianco dell’altro. Vale a dire: uno a destra dell’altro (e l’altro a sinistra dell’uno, e magari tutti a destra dei “movimenti”). Bisognerà pensare allora che il Pdci – oppure Rifondazione – si sia spostato un pochino più a destra, verso Mussi, o addirittura verso Caldarola e Boselli, per il fatto che proveranno a incontrarsi a metà strada, in un soggetto politico nuovo? È curioso, peraltro, che sia stigmatizzata la scelta dei Ds di lasciar cadere la “s”, e che ci si lanci poi nel progetto di una sinistra senza aggettivi, nel quale l’aggettivo “comunista” non cade – viene anzi difeso orgogliosamente – ma viene messo prudentemente in secondo piano, per non avere inciampi nella costruzione di un soggetto unitario, nel quale devono confluire spezzoni e frantumi di socialismo italiano e di socialdemocrazia che comunisti non sono e non vogliono essere. Insomma: con questi aggettivi neanche Diliberto riesce dopo tutto a regolarsi con sufficiente coerenza.
Ma, in verità, si vede bene quanto siano futili simili considerazioni, ed è preoccupante che al segretario dei comunisti italiani non venga in mente, in tutto questo balletto, un altro movimento possibile, oltre a quello laterale: quello in avanti. Un partito può spostarsi in avanti; e se si considera un partito moderno e progressista, è bene che lo faccia. Quel che la parola democratico significa è anzitutto questo. In un discorso vecchio ormai di quasi sessant’anni, il filosofo americano John Dewey cercava di spiegarlo grosso modo in questi termini: è sbagliato credere che i nostri antenati abbiano messo a punto una volta per tutte la macchina della democrazia, e che questa dunque si muova automaticamente, senza nessuno sforzo inventivo e senza nessuna capacità creativa da parte nostra. Non più che in fisica, in politica il moto perpetuo, purtroppo, non esiste. Anche la democrazia non va da sé: bisogna farla andare. Questo fanno i democratici: fanno andare avanti la democrazia. Non è cosa da poco. Ed è una cosa per la quale le vecchie liturgie autoconsolatorie non possono bastare.
Quel discorso aveva peraltro questo bel titolo: “Creative democracy: a task before us”. Lo si può prendere, e farci un manifesto: i termini che vi compaiono sono i termini che definiscono il senso dell’azione politica democratica. La democrazia è ciò che assegna al “noi” un compito; non c’è democrazia senza un’idea di futuro, e non c’è futuro per chi non abbia un compito. Questo compito non è mai semplicemente dato, ma deve essere inventato. E le condizioni migliori per inventare sono quelle che consentono a tutti di provarci.
“Creare un’esperienza più libera e più umana a cui tutti possano prendere parte e tutti contribuire”: così si conclude il discorso. Non è un programma di governo, questo è certo. Ma qui si tratta solo del senso di una parola, democratico, e di cosa sarebbe andato perduto per il fatto che, al suo fianco, quella parola non ha più l’etichetta che rassicura Diliberto. Non è andato perduto un bel nulla, a voler dare un senso alle parole.
Bisogna però volerglielo dare: perché tanto è sterile il riflesso identitario di Diliberto quanto lo sarebbe un idealismo edificante e “buonista”. Ma Diliberto, ecco l’ultimo errore, non si è accorto che mentre i Democratici di sinistra perdevano, nel nome, la “s” (l’aggettivo), acquistavano dall’altra parte la “p” (il sostantivo). Così, non farò il computo degli anni, ma ce ne sono voluti un bel po’, e un processo lungo e faticoso per attraversare gli anni Novanta, perché infine quel sostantivo non fosse più un ingombro.