Il primo dibattito televisivo tra Bush e Kerry ha riproposto all’America il dilemma di Peter Parker: proprio come l’Uomo Ragno, gli Stati Uniti si trovano nuovamente di fronte ai problemi morali e pratici che vengono loro da un superpotere appiccicoso. Essere un supereroe, proprio come essere una superpotenza, condanna a una condizione amletica da cui non c’è via d’uscita: combattere le forze del male è un dovere, perché solo chi possiede quei superpoteri può sconfiggere i supercriminali – miliardari falliti e scienziati pazzi sempre al lavoro su nuove armi di distruzione di massa – che minacciano l’intera umanità. Ma al tempo stesso, assolvere il proprio dovere di supereroe significa rinunciare alla propria vita privata, agli affetti, al lavoro, alla felicità. Condannare alla sofferenza se stessi e i propri cari, scegliendo una doppia vita che è doppiamente infelice: da supereroe, guardato come un pazzo o un criminale e indicato dai giornali come la vera causa di tutti i problemi; da privato cittadino, costretto all’anonimato e alla solitudine, all’emarginazione sociale e al fallimento professionale e sentimentale. La follia di Amleto schiacciato da un dovere che comporta la propria autodistruzione, per Peter Parker ha un’unica origine: quel superpotere che getta sulle sue spalle il dolore del mondo e il dovere di combattere, ma che ne determina anche la diversità e la marginalità sociale. Perché Peter Parker non è Superman, il bellissimo rampollo di una dinastia superiore, consapevole di sé e del proprio valore, che ogni mattina decide di camuffarsi in essere umano sotto le spoglie dell’impacciato Clark Kent. Come dice David Carradine nell’impreciso monologo di Kill Bill (vedi leggere e vedere del 3 maggio), Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana. Ma Peter Parker non è un travestimento, Peter Parker è un uomo rimasto vittima di un incidente che lo ha reso un mutante. In altre parole, un mostro, costretto a nascondersi e camuffarsi. Non è il miliardario Bruce Wayne, che si traveste da Batman per fare giustizia, per poi tornare a essere – di giorno – lo scapolo d’oro, il benemerito filantropo, l’uomo più in vista della città. Peter Parker, ogni volta che si toglie la maschera, torna a essere un fallito. Spiderman 2 si sivluppa attorno al principale topos del genere: stanco di nascondersi e fuggire, di vivere una vita dimezzata, Peter decide di abbandonare la sua missione. Ama Mary Jane e vuole stare con lei, vuole una vita normale, pacifica e ragionevolmente felice come quella di tutti gli altri. Non è il rappresentante dell’America conservatrice e isolazionista, ma semmai del mite internazionalismo clintoniano. E’ il figlio della rivoluzione democratica del fumetto operata da Stan Lee nella Marvel degli anni ‘60. Il suo motto – che nel film viene attribuito allo zio-patrigno di Peter, ma che è in realtà del suo creatore – era “da superpoteri discendono super-responsabilità”. Così sono nati i dilemmatici e reietti supereroi mutanti, emarginati e diversi. Un impegno sociale che forse ha toccato il limite quando anche nelle storie di Peter e Mary Jane ha fatto la sua comparsa una cugina anoressica e altri simili problemi sociali di stretta attualità. Ma a parte tali eccessi pedagogici della sua ultima, declinante stagione, non c’è dubbio che l’Uomo Ragno è l’eroe democratico per definizione: non uccide i propri avversari e in genere non li picchia nemmeno (se non per legittima difesa), ma li avvolge nella sua tela. Li mette in condizione di non nuocere e li affida alla legittima autorità, penzolanti da un cornicione in attesa della polizia. La soluzione del dilemma iniziale trova nel film la sua provvisoria soluzione nell’abbraccio con Mary Jane e nella condivisione di felicità e pericolo, perché per fare il supereroe non c’è bisogno di votarsi al martirio. E dopo che l’eroe buono ha convinto lo scienziato pazzo a rimediare al male commesso, il film sembra dunque avviarsi a un pacifico e rassicurante lieto fine, democratico e sentimentale. I due protagonisti si sono finalmente baciati, nel piccolo e romantico monolocale di Peter. Ma ecco che dalla strada le sirene della polizia attraggono l’attenzione del protagonista. Si volta verso la finestra, poi verso la sua compagna. Lei ha capito, sa che di quel superpotere appiccicoso non è possibile liberarsi. Il primo piano è sui suoi occhi sorridenti, mentre pronuncia la battuta finale del film: “Falli secchi, Tigre”. Il pubblico italiano che fosse andato al cinema dopo avere seguito il dibattito tra Bush e Kerry sui nostri giornali, farà bene a osservare il labiale. Perché le labbra della rossa Mary Jane, abbracciata al più buono dei buoni, dicono proprio così: “Go and get them”.