Non che sia un capolavoro, ma l’indignazione di tanti più o meno improvvisati classicisti di fronte a Troy ci pare davvero fuori luogo. Certo il film di Petersen ha poco a che fare con gli originali omerici, ma anche in età classica i miti erano considerati dai poeti poco più di un canovaccio, ognuno piegava le vicende di dei ed eroi ai propri fini, al proprio gusto e alla propria sensibilità, senza doverne rendere conto a nessuno. Così Achille veniva ucciso ora da Paride, ora da Apollo; Elena era figlia di Zeus e Leda, ma anche di Nemesi, di Oceano e di Afrodite; Agamennone era talvolta re di Argo, talaltra di Micene. Insomma Troy non fa che aggiungere l’ennesima variazione sul tema, facendo del patrimonio mitologico l’uso più appropriato. Noi poi, fossimo stati gli sceneggiatori, avremmo lasciato l’Iliade così com’era, ma non certo per scrupolo filologico. Nell’originale omerico c’era infatti tutto il necessario per farne un successo planetario: una guerra raccontata con sapiente equilibrio, in cui è quasi impossibile distinguere i buoni dai cattivi e il torto dalla ragione; eroi coraggiosi e tormentati, combattimenti feroci, teste mozzate e sangue che zampilla come nemmeno in un film di Tarantino; donne bellissime che si disperano per gli amanti caduti mentre oscuri e incontrollabili poteri agiscono sullo sfondo, soddisfacendo così anche i più esigenti amanti della dietrologia bellica. Ma soprattutto c’erano due grandi protagonisti: Ettore e Achille. Nel sontuoso (e noioso) kolossal holliwoodiano, Achille è interpretato da Brad Pitt, unica vera star del film. E forse non è un caso che in questi tempi agitati, l’America di Bush riesca a immedesimarsi più facilmente in lui che in Ettore. Achille, eroe invincibile di origine semidivina, parte per una guerra tutt’altro che giusta: sarebbe infatti davvero difficile, persino per Giuliano Ferrara, considerare la gelosia di Menelao come un motivo ragionevole per scatenare una guerra di dieci anni. Achille ne è consapevole (“Per odio de’ Troiani io qua non venni a portar l’armi, io no; ché meco ei sono d’ogni colpa innocenti”) ma si mette ugualmente al servizio di un re che pure odia come la morte. Accecato dalle passioni, prima minaccia il ritiro, poi scatena tutta la sua furia contro i malcapitati troiani che gli vengono a tiro. Nel duello finale con Ettore si beffa di quel po’ di regole che all’epoca erano una sorta di primitivo diritto internazionale, rifiutando persino di accordarsi sugli onori da concedere allo sconfitto (“Non parlarmi d’accordi, abominato nemico, nessun patto tra l’uomo e il lione, nessuna pace tra l’eterna guerra dell’agnello e del lupo, e tra noi due né giuramento né amistà nessuna, finché l’uno di noi, steso, col sangue l’invitto Marte non satolli”). Certo, esce vincitore dal duello con Ettore assicurandosi gloria eterna, ma la sua è una vittoria amara, che gli impedirà il ritorno in patria e una vita serena, una vittoria che indigna gli dei.
A noi uomini di sinistra riesce decisamente meglio immedesimarci in Ettore, padre di famiglia affettuoso e devoto, coraggioso e forte, che combatte una guerra giusta a difesa del suo popolo e della sua patria assediata. Sempre pronto a rischiare in prima persona, generoso e comprensivo con tutti, rispettoso del nemico e delle regole.
Certo, scegliere Ettore significa scegliere la sconfitta, ma seguire Achille nella bestiale umiliazione del cadavere dell’eroe troiano è qualcosa che ripugna a ogni sincera coscienza democratica. E se Ettore viene così orrendamente battutto, i valori che incarna troveranno la loro rivincita qualche verso dopo, quando Priamo, vecchio e disperato per la morte del figlio, in un toccante incontro convincerà Achille a restituirne il corpo e a tornare ai tradizionali rapporti tra nemici. La furia cieca di Achille, presto o tardi, verrà dunque ricondotta al rispetto di quel superiore diritto – che mutatis mutandis potremmo ben definire “internazionale” – poco prima tanto brutalmente sprezzato.