La differenza tra un film di Quentin Tarantino e un qualsiasi altro film altrettanto violento, onirico, ironico, grondante sangue e cultura pop è la stessa che separa Superman dall’Uomo Ragno. Il secondo volume di Kill Bill assegna al cattivo David Carradine, nel suo ultimo incontro con la bella Uma Thurman, il compito di spiegare il senso di quell’interminabile viaggio attraverso l’orrore in tale semplice tautologia: Superman è Superman. E’ un unicum nella mitologia dei fumetti, perché al contrario di Batman o dell’Uomo Ragno, non indossa un costume per nascondere la propria identità o per trasformarsi in supereroe. La calzamaglia blu e il rosso mantello con cui entra in azione sono i panni in cui era avvolto sin dalla nascita. Mentre l’Uomo Ragno quando si sveglia nel suo letto è Peter Parker, mentre Batman finché non indossa la sua maschera è semplicemente Bruce Wayne, Superman è Superman, sin da quando si sveglia al mattino, sempre. L’impacciato, insicuro, maldestro Clark Kent è il modo in cui cerca di mimetizzarsi tra gli esseri umani, Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede.
Così il cattivissimo Bill nel suo lungo monologo finale, anche se il paragone con Batman appare assai più azzeccato di quello con l’Uomo Ragno. Perché Peter Parker, al contrario del miliardario Bruce Wayne, è un mutante, sempre e comunque consapevole – spesso drammaticamente consapevole – della propria diversità. Un tratto non secondario nei fumetti della Marvel “democratica” di Stan Lee come l’Uomo Ragno, i Fantastici Quattro o gli X Men, in netto contrasto con gli assai meno problematici e “impegnati” superuomini o giustizieri della Dc Comics. Come, per l’appunto, Superman e Batman.
Figlio legittimo del fortunato filone dei b-movie sulle arti marziali, a tratti splatter, sempre tagliente come la katana del samurai e ricoperto di un’ironia surreale, spaghetti western con evidente tributo a Sergio Leone – anch’esso si conclude in un certo senso con un “triello” – Kill Bill volume 2 chiude il dittico stravolgendo la struttura perfettamente lineare del primo episodio. Il film ruota attorno a tre personaggi o temi chiave: la bella, il brutto e il cattivo. Un film che non sarebbe nemmeno immaginabile senza gli occhi tristi di Uma Thurman, la bella, mentre attraversa tutto ciò che di più brutto è al mondo, per arrivare infine alla resa dei conti con il cattivo Bill. Ci riuscirà grazie ai “crudeli insegnamenti di Pei Mei”, il suo maestro di kung fu. Ci riuscirà perché è cattiva quanto il suo sadico insegnante e forse più del suo nemico, priva di scrupoli e anzi ben felice di vendicarsi lasciando dietro di sé un’interminabile scia di sangue. Ci riuscirà perché Beatrix Kiddo è un assassino, le dirà infine Bill, proprio come Superman è Superman. E Quentin Tarantino è Quentin Tarantino, ragion per cui se Clark Kent è “la critica di Superman alla razza umana”, Kill Bill è il modo in cui la vede, una volta che si sia tolto gli occhiali che per finzione scenica lo rendono irriconoscibile, e che forse rendono il mondo irriconoscibile ai suoi occhi. Questa è la differenza tra Kill Bill (o Pulp Fiction) e tanti altri film del genere: la violenza immotivata e l’assenza di ogni scrupolo morale qui non sono un costume indossato per trasformarsi, non hanno alcuna valenza catartica. Sono il genere umano così com’è. I costumi sono gli altri, quelli degli eroi positivi, giovani e belli e dai ferrei principi morali, sempre uguali a se stessi e che pure, misteriosamente, non si sgualciscono mai.