In questi tempi agitati, persino mentre seguivamo ammirati lo svolgersi della lotta tra vampiri e licantropi in Underworld, non abbiamo potuto fare a meno di pensare che lo sceneggiatore fosse uno dei tanti esagitati ammiratori delle tesi di Samuel Hungtinton. Perché il film sembra davvero una rappresentazione dello “scontro tra civiltà” evocato dallo studioso americano negli anni Novanta ed entrato, forse suo malgrado, nel lessico del fanatismo occidentalista post 11 settembre.
I ricchi e raffinati vampiri vivono in un sontuoso castello e con armi all’avanguardia tentano di distruggere i lican, asserragliati in nascondigli sotterranei, pronti a seminare morte e terrore con la loro bestiale brutalità. E’ subito evidente che quella dei vampiri è una società superiore e anche per chi, come noi, ha sempre amato i più deboli, è pressoché impossibile non parteggiare per loro. Non a caso protagonista del film è la bella vampira Selene, di professione “agente di morte”, che ha dedicato la sua vita alla caccia dei licantropi, colpevoli di averle sterminato la famiglia quando era bambina (e umana). Per questi postmoderni discendenti del conte Vlad la vittoria è un “diritto innato” ed effettivamente la loro guerra giusta per ripulire il mondo dai pericolosi e bestiali lican sembra ormai vicina alla conclusione: il licantropo più pericoloso è stato ucciso e i suoi seguaci sono obbligati a nascondersi. Ma la storia, ovviamente, si complica subito con l’entrata in scena dell’unico umano del film e con il susseguirsi di colpi di scena, tradimenti e combattimenti.
Dopo la grande noia delle mega-trilogie, in cui tra effetti speciali sontuosi, trame contorte e colpi di scena a ripetizione, non bastano nove ore a coinvolgere emotivamente lo spettatore, Underworld non è affatto un film disprezzabile: i personaggi sono ben disegnati, le atmosfere suggestive e alcune scene, come quella inziale con i due vampiri appollaiati sui tetti, semplicemente memorabili. Ma ciò che lascia davvero senza fiato è la lenta e progressiva scoperta della verità, che svela un grande e plurisecolare complotto volto a garantire il potere e la sopravvivenza di una razza cinica e spietata ai danni dell’altra, debole e incolpevole. L’idea dello scontro tra civiltà passa dunque decisamente sullo sfondo.
A ben vedere c’è tutto: la civiltà superiore che si proclama tutrice dell’ordine non è poi così nobile e pura, i suoi leader politici sono corrotti e doppiogiochisti, la loro guerra tutt’altro che giusta e la storia come è stata raccontata fino ad allora semplicemente non è mai esistita. C’è poco da fare, Underworld è il più compiuto manifesto cinematografico dell’ideologia noglobal. L’altalena di sentimenti prodotta da questo progressivo mutamento del paradigma interpretativo si chiude così con una riflessione rassicurante sia per lo spettatore, sia per i destini del mondo. Le teorie degli aficionados dello scontro di civiltà e quelle dei no global sono finalmente arrivate dove possono davvero svolgere una funzione utile: nel grande cinema (hollywoodiano) di fantascienza.