Master and Commander è un film d’azione ambientato al tempo delle guerre napoleoniche, diretto con la consueta accuratezza e fredda eleganza da Peter Weir; ma è anche un vibrante pamphlet neoconservatore, che nell’esaltazione di alcuni fanatici epigoni dell’ammiraglio Nelson svela definitivamente il carattere schiettamente reazionario dell’ideologia che tenta di propagandare. Primo film nella storia del cinema americano in cui il protagonista, il gladiatore Russell Crowe, possa così esaltare il morale della ciurma un attimo prima di lanciare l’assalto: “Volete voi sentir cantare la Marsigliese nelle nostre strade?”. Uno scarto ideologico non a caso notato persino sul Washington Post.
L’11 settembre da cui il racconto ha inizio è l’attacco lanciato da un misterioso vascello – francese, ça va sans dire – che aggredisce la nave di Sua Maestà da sopravvento e con cannoni a più lunga gittata; capace così di colpire rimanendo fuori tiro, veloce e imprendibile come un fantasma (o come il capo di una rete terroristica, fate voi). Sfuggiti al primo assalto, sia pure con pesanti perdite, in molti vorrebbero tornare in porto a riparare la nave. Ma non il capitano, perché se l’obiettivo del “vascello fantasma” è portare la guerra nei mari del sud, il compito del nostro eroe è fermarlo: l’esigenza del preemptive strike si tramuta così in un inseguimento in cui sono in molti a non credere, primo fra tutti il “democratico” medico di bordo – e raffinato naturalista – poco convinto su chi sia la preda e chi il predatore. L’opera del regista australiano è dunque il primo autentico film “willing”, che nell’esaltazione della flotta di Sua Maestà celebra i fasti della coalizione angloamericana. L’intera sceneggiatura somiglia ad uno di quei dialoghi della letteratura didascalico-religiosa del Medioevo, in cui non esiste caratterizzazione psicologica ma solo tipizzazione ideologico-morale, funzionale alla rappresentazione dei due poli in conflitto: il soldato che esalta l’amor di patria e la dura necessità della disciplina militare da un lato, dall’altro l’intellettuale effeminato e non violento, dedito al culto della scienza e della natura. Riconciliati nell’abbraccio finale tra scienza e arte militare, che già preannuncia le meraviglie della guerra tecnologica americana. Ma la guerra fredda è finita, ed anche gli anni Novanta del mite internazionalismo clintoniano, che non intaccava nel fondo il principio della sacralità del soldato americano: i top gun del Kosovo non scendevano mai dai loro diecimila metri d’altezza, dunque potevano ancora essere identificati in qualche modo con la figura leggendaria di Tom Cruise, con i suoi Ray-Ban, la sua motocicletta e il suo individualismo ribelle, ma tutto sommato ricco, felice e sicuro. Dopo l’11 settembre invece gli Stati Uniti non si sentono più al sicuro, e con la nuova dottrina Bush (e la guerra in Iraq) è caduta anche la sacralità del soldato-cittadino americano, quell’individuo irripetibile ed inviolabile su cui era costruito il mito di una società libera e perciò invincibile.
La scena chiave di Master and Commander è l’abbattimento di un albero della nave da parte del nemico, con un ufficiale che cade in acqua e tenta di aggrapparsi al relitto, per potere di qui risalire a bordo. “Se non tagliamo i cavi che ci legano all’albero, ci tirerà giù e moriremo tutti” dicono al capitano. E il capitano taglia quei cavi, guardando il suo ufficiale allontanarsi tra le onde. Fino a pochi anni fa la scena sarebbe stata diversa: il capitano avrebbe gridato al suo vigliacco consigliere che mai e poi mai avrebbe abbandonato un suo uomo, forse si sarebbe gettato in acqua egli stesso, di certo lo avrebbe salvato. E avrebbe mostrato così al popolo la forza dell’esercito e della società americana: tutti per uno, uno per tutti. La risolutezza da ufficiale sovietico con cui Russell Crowe taglia i cavi di quella retorica che “li porterebbe tutti a fondo” segna invece l’ultimo strappo ideologico non solo con il clintonismo, ma con la stessa America di Reagan. Mostrando però anche tutta la fragilità di una propaganda schiacciata sulla difensiva, che di fronte alla paura di nuovi attentati e al rientro delle body bags dall’Iraq non può più offrire immagini vincenti e miti rassicuranti. Per questo i top gun dell’Ottocento di Peter Weir non sono più modelli invidiabili, che dopo aver sfrecciato nei cieli con i loro super aerei possano sfrecciare lungo le strade su fiammeggianti motociclette, stretti tra le braccia di Kelly McGillis. Sono generalmente bruttini e la loro vita è triste, dominata dall’ineluttabilità del fato e dal senso del dovere. Una sola donna compare in tutto il film: la giovane indigena intravista dal capitano sulle coste del Brasile. Ma il dovere chiama, e il pensiero va a lei solo per un attimo fuggente, che nessuno può più permettersi di cogliere.