Angel Of Retribution” non è solo la reunion dei Judas Priest con il sovracuto Rob Halford. E non è solo la necessità di rimettere in acqua un glorioso vascello provato dalla lunga navigazione. E’ innanzi tutto il tentativo di ritornare a quello che è comunemente ritenuto il loro momento migliore, quell’arco di tempo tra il ‘78 di “Stained Class” e l’84 di “Defenders Of The Faith” nel quale i Judas hanno forgiato il loro stile e indicato una rotta nell’irrequieto oceano della New Wave Of British Heavy Metal.
Il gruppo si forma nel 1970: al nucleo storico composto dal chitarrista K.K.Downing e dal bassista Ian Hill, si uniscono il cantante Alan Atkins (che porta in dote il nome J. P.) e il batterista John Ellis. Il ruolo del batterista vedrà negli anni avvicendarsi più musicisti, come Les Binks, Dave Holland e infine (dal ‘90) Scott Travis, già con i Racer X; Halford succederà ad Atkins nel ’73 e per l’incisione dell’esordio “Rocka Rolla” (’74) verrà scritturato Glen Tipton, da quel momento socio alla pari della più inossidabile e affiatata coppia di axe-men della storia metal.
Con questa formazione i Judas approdano agli anni novanta: la vena migliore sembra esaurirsi, pur tra spunti ancora interessanti; è tempo di cambiare e la metal-opera “Painkiller” (1990) è una grossa scommessa per chi ha nel proprio dna l’hard dei Blue Oyster Cult e dei Led Zeppelin, sia pure istoriato con le venature più cupe dei Black Sabbath. “Painkiller” offre un sound incattivito e pesante, in contrasto con la precedente nettezza; l’ossessività dei testi si accentua, lo scenario è quello della catastrofe. E’ una sfida doppia, considerato che le registrazioni dell’album sono parallele al processo intentato contro il gruppo per il suicidio di due ragazzi: secondo le famiglie, la tragedia sarebbe stata innescata dai testi di “Better By You, Better Than Me” (da “Stained Class”). Sul delicato tema del rapporto tra arte e fruitori, delle responsabilità di ciascuno rispetto alla possibilità di influenzare gli altri, del limite da non oltrepassare, si costruisce purtroppo l’ennesimo circo mediatico, indifferente alle ragioni degli uni ed al manifesto disagio sociale degli altri, disagio che non può essere né riscattato né originato dalla sola musica. L’assoluzione finale smonta circo e discussione, lasciando inutili ombre.
A questo punto, Halford lascia il gruppo sostituito da “Ripper” Owen (ora con gli Iced Earth): la sua produzione solista, dopo un tentativo di innovazione con i Voyeurs (co-prodotto da Trent Reznor), ritorna allo standard metal, di fatto preparando la via per il rientro. Owen guida i Priest per l’apprezzabile “Jugulator” e lo spento “Demolition”. Con queste premesse, “A.O.R.” non raggiunge appieno il suo scopo: da un lato non s’intravede la necessità di tornare a un’epoca passata; dall’altro, accanto ad alcuni episodi riusciti (l’uno-due di “Judas Rising/Deal With The Devil” e la sostenuta “Worth Fighting For”) si trovano brani stanchi e ripetitivi, salvati solo dalla classe: “Angel” ed “Eulogy” non hanno il pathos di “Out In The Cold”; “Demonizer” e “Hellrider” fanno pensare ad outtakes. Discorso a parte per la conclusiva suite “Lockness”: piacevole nella sua struttura doom, deludente nel mediocre ritornello centrale, con un grande lavoro di chitarre che mantiene comunque il pezzo sopra la media. Nelle parole della band, “A.O.R.” rappresenta la seconda parte del vecchio “Sad Wings Of Destiny”. La speranza è che i Judas scelgano il termine “doom” al posto di “destiny” e dispieghino per il prosieguo l’ala del progresso anziché quella della ripetizione.