Domanda: nel grande crogiuolo del nuovo Partito democratico ci sarà spazio per il materialismo? Si capisce che la parola sia impronunciabile per chiunque voglia credibilmente candidarsi alla guida del Pd. Eppure, in tutto questo parlare di ideali, valori, fini e identità, non mi riesce di non domandarmi se vi sia un modo per farla circolare ancora, quella spudorata parola, che nessuno si può permettere oggi di sventolare orgogliosamente come una bandiera.
Cominciando dall’inizio, magari, e cioè da Aristotele. Dal punto in cui, più o meno, comincia la politica occidentale. Per Aristotele, “pur essendosi costituito per sopperire alle necessità della vita, lo Stato esiste in funzione della buona vita”. La cosa interessante di questa definizione è che l’eu zen, la buona vita, costituisce certo il fine ultimo dell’attività politica, ma si dà a vedere solo dopo un certo tempo, una volta che siano risolti i problemi posti dalle più prosaiche necessità della vita. Le cose non vanno dunque come se il fine fosse già bell’e costituito, e si trattasse solo di organizzare i mezzi allo scopo. No: per avere anche solo in vista quel fine, occorre prima avere una certa disponibilità di mezzi. Che è come dire che il fine stesso si profila diversamente, a seconda dei mezzi di cui si dispone.
Ma la modernità ha progressivamente svuotato l’orizzonte della politica da qualunque proposizione di fini. Il comune denominatore delle democrazie liberali sembra infatti essere: gli uomini facciano quel che vogliono delle loro vite, purché lo facciano in modo da non turbare l’ordine pubblico, in modo da non minacciare la sicurezza dello stato, e in modo da consentire anche agli altri di fare altrettanto. È quel che Carl Schmitt chiamava la neutralizzazione o spoliticizzazione di ambiti sempre più estesi dell’esistenza umana. Ora, non v’è dubbio che la più potente forma di spoliticizzazione sia costituita dalla tecnica. Ovunque diviene tecnica la soluzione di un problema, i processi di mediazione e decisione politica non paiono avere più legittimazione razionale (a quella divina, salvo ripensamenti, s’è rinunciato da un po’). Per il comune cittadino, ad esempio, il miglior modo di gestire i rifiuti è quello che solo un ingegnere può indicare, poiché solo lui può scegliere la soluzione più razionale per lo smaltimento, la raccolta, e insomma la gestione dell’intero ciclo di rifiuti. A mettere così le cose, la politica appare inevitabilmente nel momento in cui si deve abbandonare la via regia della razionalità tecnica, strumentale, per piegarla a più o meno confessabili finalità di parte. Ovviamente, la cosa può andare in vari modi. Schmitt, che in fondo accettava per intero quest’impianto di pensiero, riteneva che la politica non potesse intervenire che nella forma di una decisione sovrana. Potremmo dire: nei termini di un’assunzione radicale di responsabilità che, ad onta di qualunque previsione razionale di mezzi, si impone in considerazione di fini squisitamente politici – e anzi dell’unico fine per Schmitt autenticamente politico: la lotta contro il nemico. Schmitt finiva così col bere sino in fondo l’amaro calice della modernità, salvo poi rifugiarsi in corner: nel politico, a cui dava comunque l’ultima, decisiva parola.
Ma le cose, forse, stanno altrimenti. Con una simile, astratta separazione di mezzi e fini nessuna cultura umana, e men che meno una sfera politica dell’esistenza si sarebbe mai potuta costituire. Solo se ho per le mani un sasso, guarderò il mondo distinguendo ciò che è scalfibile (grazie al mio sasso) da ciò che non lo è, ma una distinzione simile non mi apparirebbe nemmeno se non avessi mai tenuto un sasso in mano. È vero dunque che il fine di una cosa è la sua natura, ma Aristotele non ce ne vorrà se aggiungeremo che nessun fine sbuca fuori da nessuna parte se i mezzi non lo rendono anzitutto proponibile, avvistabile, plausibile.
Il gran parlare di idealità che si fa di questi tempi è perciò, dal punto di vista della cultura politica (e, vorrei dire, della cultura tout court), una dichiarazione di resa, poiché rimane del tutto cieco rispetto al pervasivo condizionamento dei mezzi. Il quale non concerne soltanto la strumentale possibilità di raggiungere questo o quel fine, ma lo stesso averlo in vista. E questo è, detto sommessamente, materialismo, poiché sostiene che il piano materiale dei mezzi concorre a selezionare i relativi fini, o almeno a dirigere lo sguardo su di essi (e perché assegna di conseguenza allo Stato qualche compito in più rispetto a quelli che gli riconosce la dottrina liberale).
La proposta è dunque: passate le primarie, in cui posso comprendere lo spreco di retorica, si impongano cinque anni di moratoria su parole come valore o ideale, e si avvii una robusta discussione sui mezzi di cui si vuole dotare il paese. Vedrete che quando la moratoria scadrà, avremo innanzi molte più cose verso cui potremo orientare la nostra esistenza politica. E se poi così non sarà, avremo fatto perlomeno opera di pulizia linguistica.