Per gli scacchi questi sono tempi grami, in Italia e nel mondo. Cominciamo dal mondo. Dopo avere vinto il supertorneo di Linares, in Spagna, il più grande giocatore di scacchi vivente, Garry Kasparov, l’orco di Baku, ha annunciato che intende abbandonare l’attività agonistica di vertice per dedicarsi alla politica e contrastare la «dittatura», così la definisce, del presidente russo Putin. Nel suo palmarès, Kasparov non ha all’attivo solo titoli mondiali e supertornei, ma anche la prima sconfitta dell’uomo contro un computer, Deep Blue. Vincitore nel 1996, Kasparov ha avuto l’onore di essere il primo grande maestro a perdere con un computer in un match regolamentare.
A proposito di campioni. Fa notizia Bobby Fischer, uno dei più geniali scacchisti di tutti i tempi, il primo a portare il titolo di campione del mondo in America, nel pieno della guerra fredda, dopo decenni di supremazia sovietica. Eclissatosi subito dopo aver conseguito il titolo, Fischer aveva concesso a Spassky una prezzolatissima rivincita a Belgrado, al tempo dell’embargo contro la Serbia di Milosevic. Per questo motivo ricercato dalla polizia statunitense, era riparato in Giappone, senza però riuscire a sfuggire alla giustizia. Ora, la riconoscente concessione di un passaporto islandese all’uomo che aveva portato Reykiavik, al tempo della sfida mondiale, all’attenzione del mondo intero, gli ha restituito quella libertà di cui non è sicuro, peraltro, che sappia fare buon uso.
A proposito di libertà. È notizia di questi giorni che il grande ayatollah Alì Al Sistani, dominus della scena politica irachena, ha incluso gli scacchi nel novero delle cose proibite. Prima di lui, un altro ayatollah sciita, Khomeini, aveva bandito gli scacchi dal suo paese, l’Iran, salvo poi ricredersi, una volta convinto che non di gioco d’azzardo si tratta, ma di gioco di pura abilità intellettuale. E prima ancora, anche i talebani, in Afghanistan, avevano vietato il gioco. Non è chiaro oggi quale sia il peso dell’ultima decisione di Al Sistani (non è il primo problema all’ordine del giorno in Iraq). È chiaro però che Al Sistani non può avercela con gli americani o gli europei, visto che europei (e americani) hanno conosciuto il gioco degli scacchi proprio grazie alla mediazione araba (e subito dopo a quella italiana: i primi grandi scacchisti europei siamo stati noi).
A proposito di Italia. Dopo qualche mese di commissariamento, la sonnacchiosa Federazione Scacchistica Italiana si è data un nuovo presidente, l’agente di commercio Gianpietro Pagnoncelli. Il passaggio di consegne è previsto per martedì 29. Tutto è bene quel che finisce bene, dunque, anche se, per finire, in Federazione ne hanno fatte un po’ di tutti i colori. Il fatto è che il Coni voleva chiudere a tutti i costi una vicenda poco commendevole: gli scacchi sono diventati sport olimpico, Torino 2006 è alle porte, e in una Federazione finora autarchica nuove ambizioni crescono. Nel frattempo, ai primi dell’anno il campionato italiano (che non è certo il più bello del mondo) è stato disertato dai migliori giocatori del paese.
Ciò detto, perché raccontare tutte queste cose? Perché gli scacchi sono finiti, e gli anatemi di Al Sistani inutili. Beninteso: non sono finite partite e circoli, tornei estivi e tournée dei campioni. Non è finito nemmeno il movimento scacchistico internazionale, benché sia diviso in più tronconi e non ci sia un unico campione del mondo. Né si tratta solo di Deep Blue e macchine che realizzano l’antico sogno di sconfiggere l’uomo in una partita a scacchi. Più in profondità, si tratta del fatto che queste macchine lo fanno senza tentare di riprodurre gli effettivi processi mentali di un campione del gioco. Il quale gioco, dunque, non rappresenta più l’insuperato paradigma dell’intelligenza umana. Gli scacchi sono divenuti un gioco come un altro. Gli studiosi dell’intelligenza devono rivolgersi altrove. Però a pensarci, una brutta notizia per gli scacchi è una buona nuova per l’uomo. Sia chiaro: non c’è bisogno di pensare che se l’uomo non funziona come una macchina (e perde) è perché ha un’anima. Più semplicemente, al posto della macchina dovremo mettere altre metafore. E nel frattempo, diremo magari proprio così: che l’uomo è l’unico essere che, non raccapezzandosi sul proprio conto, la mette sempre in termini un po’ sfuggenti, metaforici. Se poi a sfuggire è l’anima, beh, per quello ci vorrà un’altra buona novella. Per chi ci crede. Auguri.