Per gli appassionati di ciclismo il “nord” è una striscia di territorio grande come un terzo della Lombardia, situata tra il nord della Francia e l’estremo lembo sudorientale dell’Olanda, attraverso le regioni storiche del Belgio: Fiandre, Brabante, Ardenne. Qui, nel raggio di non più di qualche decina di chilometri, si dipanano i percorsi delle grandi classiche di primavera. Ogni anno, subito dopo la Sanremo, il carrozzone del ciclismo professionistico si trasferisce in queste regioni prive di montagne (ma non di salite, come vedremo) e ci si stabilisce per un mese a costruire le proprie gerarchie, i propri eroi, la propria storia. E ad alimentare tutto l’indotto. Alberghi, locande, ristoranti, birrerie prosperano grazie ai turisti delle due ruote provenienti da tutta Europa e da qualche anno a questa parte anche da fuori. Ogni locale espone i suoi cimeli ciclistici veri o presunti, ogni borgo s’addobba per salutare i visitatori e festeggiare i campioni autoctoni, dovunque ci sono cartelli segnaletici e targhe che indicano la direzione per raggiungere i passaggi celebri delle grandi classiche, fuori da molte birrerie tabelloni scritti a mano rendono note le quote per le scommesse sull’esito delle corse. In giro per le strade, naturalmente, è l’apoteosi della bicicletta. Una terra benedetta dal dio del ciclismo, che ogni anno per un mese vive il suo momento di festa collettiva e di esposizione agli occhi degli appassionati di ogni dove.
Il mese delle classiche del nord è un po’ come un pranzo nuziale. Ci sono gli antipasti gustosi dai nomi fiamminghi impronunciabili: Dwars door Vlaanderen, Brabantse Pijl, Driedaagse van Der Panne, corse minori di un giorno o più, che servono a corridori e tifosi per scaldare i motori. Poi, i tre piatti forti, i tre monumenti di lassù, classiche dalla storia centenaria e mitica: il Giro delle Fiandre, la Parigi-Roubaix, la Liegi-Bastogne-Liegi. Corse che valgono una carriera, soprattutto per i campioni belgi, ma non solo: si pensi ai nostri Moser, Argentin, Ballerini, Bartoli, Tafi che vincendole a ripetizione si sono assicurati un posto nella storia del ciclismo. Tra una portata e l’altra, ci sono i piatti intermedi: gare enormemente prestigiose, solo un gradino al di sotto del fascino delle tre classicissime: la Gand-Wevelgem, l’Amstel Gold Race, la Freccia Vallona. Infine, a mo’ di caffé e ammazzacaffé, altre corsette che chiudono la grande kermesse, ancora con nomi pazzeschi: Scheldeprijs Vlaanderen, Veenendaal-Veenendaal, cose così, possibili consolazioni per chi, tra i corridori, fosse partito per il nord con intenzioni di conquista e fosse rimasto ancora con un pugno di mosche. E poi, tutt’attorno, feste, cerimonie, conferenze stampa, presentazioni dei ciclisti alla folla dei tifosi, allenamenti delle squadre seguiti da centinaia di appassionati. Rispetto alle corse “mediterranee” di inizio stagione, le classiche del nord presentano alcune caratteristiche peculiari: la possibilità di climi anche molto freddi (più di una volta le gare si sono disputate sotto la neve, e spessissimo con pioggia e vento gelido); il percorso, in assenza di grandi salite, mosso da strappi brevi e secchi con pendenze micidiali; il fondo stradale per lunghi tratti non asfaltato, bensì in pavé, cioè coperto da un acciottolato di sassi di porfido tagliati in varie fogge, che spesso, nei giorni di pioggia, si ricopre di fango e diventa scivoloso come il ghiaccio.
Le tre caratteristiche appena enunciate (o meglio, le due dipendenti dall’uomo, ché il meteo segue logiche sue) si combinano così nei tre monumenti: Fiandre, strappi e pavè; Roubaix, niente strappi, ma pavé; Liegi, niente pavé, ma strappi. Il percorso della Liegi, infatti, si svolge su e giù dalle côtes vallone, spesso molto impegnative (la Redoute, la più famosa di esse, arriva a superare il 18%), ma il fondo è sempre in asfalto; la Roubaix è un martirio per i ciclisti a causa del pavé grosso e sconnesso, che in alcuni tratti pare addirittura uno sterrato (un pantano se piove, un deserto ardente se c’è il sole), ma i suoi duecentosessanta chilometri sono piatti, senza nemmeno un cavalcavia; il Fiandre unisce le due difficoltà: lungo il suo percorso i ciclisti devono affrontare una quindicina di muur, tratti di salita (letteralmente: muri) stretti e ripidi (il più famoso è il penultimo, situato a una decina di chilometri dall’arrivo: il muro di Grammont, 850 metri al 15%), il cui fondo è in sassi di porfido.
Per finire, un aneddoto che spiega che cosa possa significare per un ciclista vincere una corsa lassù. Se pratichi il ciclismo agonistico a qualsiasi livello, una delle prime cose che ti senti dire da qualunque allenatore, anche quello della polisportiva dell’oratorio o del dopolavoro dell’Arci, è che all’arrivo, dovessi vincere, devi tirati su la zip della maglia, dato che lo sponsor (anche quello più straccione che non può permettersi di sponsorizzare altro che la polisportiva dell’oratorio o la squadra ciclistica del dopolavoro dell’Arci) paga e gradisce che il suo nome venga visto dagli spettatori all’arrivo. Se poi diventi un professionista il gesto, che ti è per forza entrato dentro fin dall’infanzia quale parte dell’imprinting ciclistico, viene rafforzato dall’esposizione mediatica. Beh, Tom Boonen, giovane fenomeno fiammingo che a soli 24 anni ha realizzato una fantastica doppietta vincendo sia il Fiandre che la Roubaix nelle ultime due domeniche, era così pazzescamente contento e fuori di sé dalla gioia che, piombando sul traguardo, entrambe le volte si è dimenticato di alzarsi la zip. Come attestano le fotografie che, in questi giorni, stanno facendo il giro del mondo.