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La morte di Pretty Woman

Pretty Woman è morta. Questo almeno ci è capitato di pensare vedendo Closer, il nuovo film di Mike Nichols. Ma il sospetto che non se la passasse tanto bene ci era venuto già da un po’ di tempo, più o meno da quando ci eravamo resi conto che l’amore fiabesco, di cui la liaison tra la prostituta Julia Roberts e l’uomo d’affari Richard Gere è il simbolo, stava poco a poco scomparendo dal cinema, per essere sostituito da storie in cui la passione è sinomino di sofferenza più che di felicità.
Di questa ridefinizione della concezione dell’amore, Closer rischia seriamente di divenire il manifesto. E proprio grazie a Julia Roberts, costretta qui a smettere i panni di Pretty Woman per ritrovarsi incastrata in una storia di tradimenti e vorticosi scambi di coppia, in cui l’amore non è più fine, bensì strumento egocentrico e narcisistico di affermazione personale, in un’idea quasi onanistica del rapporto di coppia. Nulla ha senso, le coppie si formano e si disfano senza soluzione di continuità e tutto sembra governato dal caso. I motivi delle crisi e delle rivoluzioni sentimentali non sono raccontati perché irrilevanti, se non inesistenti. E non a caso a rimanere soli sono proprio quelli che avevano creduto al più classico dei simboli dell’amor romantico, il colpo di fulmine, mentre a salvarsi sarà la coppia più anziana, grazie a un tocco di cinismo e di disillusione: la Julia Roberts che bacia il marito addormentato e spegne la luce nella scena finale non è una donna felice, ma almeno non è sola.
D’altra parte, Closer non fa che raccontare quello che secondo alcuni è il nuovo modo di amare ai tempi della globalizzazione, così teorizzato da Zygmunt Bauman: “La definizione romantica dell’amore come vincolo che duri finché morte non ci separi è decisamente fuori moda, resa obsoleta dal radicale sconvolgimento delle strutture di parentela su cui si fondava e dalle quali traeva vigore e rilevanza”.
In una società in cui domina l’incertezza, nessuno è disposto a fare investimenti a lungo termine, si parli di finanza o di sentimenti – “La prima cosa che gli azionisti seri fanno ogni mattina è aprire il giornale e consultare il listino azionario per scoprire se è tempo o meno di vendere. La medesima cosa accade con le relazioni sentimentali. Solo che in questo caso non c’è nessuna borsa valori e nessuno che si sobbarca per te l’onere di calcolare le probabilità e valutare le possibilità”.
Siamo dunque condannati a rapporti a termine, a progetto, è come se fossimo tutti delle specie di fidanzati co-co-co. Come il protagonista di 2046, film ancora nelle sale, opera di Wong Kar Wai. Incapace di legarsi, accumula storie insignificanti; alcune durano lo spazio di una notte, altre abbastanza a lungo da fare ipotizzare un’evoluzione.
Ma così non è, e lui lo certifica con il più crudele dei giochi: dopo ogni rapporto paga con una sola simbolica banconota la sua partner (per altro innamorata). Ma arriva anche per lui il momento di pagare (davvero) il conto: ogni natale l’irrompere delle tradizioni fa sentire più forte il peso della solitudine, e i protagonisti di 2046 sono costretti a cercarsi per stringersi e sfuggire al dolore e al rimpianto.
Dunque non c’è più posto per l’amore “finché morte non ci separi”, eppure non si può fare a meno di coltivare quell’idea. “La solitudine genera insicurezza – dice Bauman – ma altrettanto fa la relazione sentimentale. In una relazione, puoi sentirti insicuro quanto saresti senza di essa, o anche peggio. Cambiano solo i nomi che dai alla tua ansia”. E allora l’unica soluzione possibile sembra essere quella di scindere l’investimento sentimentale dalla vita di coppia, come avviene nel celebratissimo Lost in Translation: due persone si incontrano in un altrove qualsiasi, si innamorano ma non si sfiorano, per tornare ognuno alla propria relazione infelice. Una parentesi ideale che, facendosi ricordo e miraggio, consente di convivere con la precaria quotidianità. Il film della Coppola sarebbe potuto essere il manifesto dell’amore del terzo millennio se non avesse ceduto all’esigenza dell’happy end, concedendo ai protagonisti un bacio finale privo di senso.
Per fortuna Wong Kar Wai non ha commesso lo stesso errore. Nel film che è un po’ il primo episodio di 2046, il bellissimo In the mood for love, racconta la storia d’amore esplicita eppure sublimata di una coppia che vorrebbe ma non può. Un amore reso eterno e indimenticabile proprio dall’assenza di fisicità. Il protagonista è lo stesso di 2046 ed è proprio con la fedeltà a quel grande e non vissuto amore che giustifica nel secondo film la sua vita di relazioni insignificanti.
E’ lui che ha ucciso Pretty Woman. E’ lui la nuova icona dell’amore ai tempi della globalizzazione. Certo, non è Julia Roberts, ma bisognerà accontentarsi.