Io trovo che gli argomenti esposti dai sostenitori del Sì ai referendum del 12 e 13 giugno sulla legge per la fecondazione assistita siano convincenti. Trovo anzitutto che la legge 40 sia una legge sbagliata sotto il profilo giuridico, poiché in difetto di coerenza: con le stesse linee guida emanate dal Ministero per la sua applicazione; con il complesso del biodiritto, cioè delle norme e dei principi che disciplinano complessivamente siffatta materia; con altre leggi (in particolare: con la legge 194, per cui si produce l’assurdo che l’embrione è protetto dalla legge più del feto), probabilmente con la stessa carta costituzionale. Trovo poi che sia una legge punitiva per la donna (e ingenerosa verso i medici), dal momento che impone un trattamento che può essere pericoloso per la sua salute. Trovo che sia ingiusta nei confronti delle coppie di coniugi di cui, per un ancestrale senso della genitorialità ormai inaccettabile moralmente e socialmente, frustra il desiderio di avere un figlio tramite il ricorso al seme di un donatore. Trovo inoltre che sia una legge arretrata perché impedisce l’uso di tecniche procreative già sperimentate, grazie alle quali sono nati in questi anni non mostri e alieni, ma bambini e bambine. Trovo infine che sia una legge inutilmente restrittiva nei confronti della ricerca scientifica, alla quale impedisce l’utilizzo di cellule staminali embrionali, comprese quelle degli embrioni già oggi crioconservati.
Ma l’embrione è un essere umano – gridano (perché gridano) i difensori della legge. Ecco l’argomento omerico, come dicono i retori: quello che chiude ogni discussione. Se l’embrione non è un essere umano, allora ben vengano la ricerca e i desideri delle coppie e la salute della donna sopra ogni cosa. Ma se lo è, esso (egli, lui?) merita la stessa protezione giuridica e morale di un bambino, di un uomo, di una donna. I difensori della legge 40 aggiungono: e se anche ci fosse solo un ragionevole dubbio che lo possa essere, precauzione vorrebbe che lo si trattasse come un uomo. (Sul principio di precauzione in se stesso, toccherà discutere un’altra volta).
Ora nessuno ha mai visto sussultare un embrione – un ootide, un pre-embrione: non faccio questione di nomi, qui; nessuno gli ha mai parlato, nessuno ha mai trepidato per lui. (Quando una donna si accorge d’esser gravida, l’embrione è già bello e cresciuto). L’unica ragione per considerarlo un essere umano è dunque il nudo fatto che l’embrione ha lo stesso patrimonio genetico completo che ha l’individuo adulto, nonché il carattere continuo del processo che naturalmente porta dal primo al secondo (Sul principio della continuità in se stesso, toccherà discutere un’altra volta). Non contano le speranze dei malati, i desideri delle coppie, il corpo della donna, il diritto/dovere di scegliere la terapia migliore: contano i cromosomi.
Ora, il mio problema con questo argomento è semplice: io non mi considero un mucchio di cellule, non mi considero un filamento di DNA, non mi considero una sequenza genetica. Né considero o mi rapporto agli altri in forza della loro mera identità biologica e genetica. (E neppure amerei meno mia figlia se non fossi il suo padre biologico). Io non confondo, insomma, una condizione necessaria per essere uomini con una condizione necessaria e sufficiente. Essere persona non significa avere 46 cromosomi. So pure che se fossi uomo solamente in virtù della mia dotazione biologica, non avrei valore più alto di un qualunque altro pezzo di natura, e nessun altro valore mi sarebbe dovuto sul piano giuridico, morale, politico, religioso.
Mi è stato obiettato spesso che se non fondassimo il concetto di natura umana sul dato biologico “oggettivo” daremmo la stura a qualunque genere di arbitrio. Saremmo noi (noi uomini, suppongo) a decidere chi è uomo e chi no. Rispondo. Primo, che si può dare al concetto di uomo base biologica, senza concludere che l’uomo è la sua base biologica (c’è la filosofia, di mezzo, e pure la teologia). Secondo, che proprio perché conosco il significato della distinzione fra condizioni necessarie ma non sufficienti e condizioni necessarie e sufficienti, so anche attribuire un valore e un significato alle prime. Esempio (che spero sarà preso per ciò di cui è esempio): per la vita dell’uomo sulla terra è indispensabile un certo ecosistema. Il quale ha dunque di sicuro un valore, anche se non lo stesso valore della vita umana. Terzo: se noi restassimo tutti tappati in casa, e magari isolati gli uni dagli altri, eviteremmo ogni genere di delitti, rapine, stupri, omicidi. Vi pare un sano principio di precauzione? Eppure la vita umana è un bene assoluto, primario, irrinunciabile: perché metterla in pericolo per una passeggiata? Fuor di metafora, non si preclude la ricerca scientifica sulle staminali embrionali perché un giorno potrà sorgere Frankenstein. Come non accorgersi che il sottofondo emotivo di questa legge regressiva è il vecchio e insostenibile adagio: “di questo passo dove andremo a finire”? So bene che in un futuro remoto è possibile che ne capitino di tutti i colori, ma questo valeva e vale anche per la scoperta della cottura, l’invenzione della ferrovia, il parto cesareo, l’aeroplano a motore. Qualcuno vuole tornare indietro? Non sapete forse che crede nell’uomo chi scommette sulla sua (difficile, e responsabile) libertà, non chi la teme?
Infine. Immagino che qualche supercilioso, convinto che si difende meglio l’uomo gridando “al lupo! al lupo!” (“al mostro! al mostro!”), potrà trovare i miei esempietti futili e leggeri, come passi di danza sull’orlo dell’abisso. Non so che farci. A me si impone la pacatezza del ragionamento, ad altri l’impellenza dell’anatema.